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Piccola nota sull’esilio calabrese di Francesco De Sanctis

Piccola nota sull’esilio calabrese di Francesco De Sanctis

C’è un periodo nella complessa “pagina” (1) della vita di Francesco De Sanctis un po’ “nebuloso”, mal noto e, sino a poco tempo fa, (2) non adeguatamente indagato: quello che va dal 5 novembre 1849 al 15 dicembre1850. Una ferita d’esilio: nel maggio del 1848 De Sanctis era stato sulle barricate a Napoli, dove alcuni suoi alunni, tra cui il dilettissimo e leopardiano Luigi La Vista, avevano perso la vita, uccisi dai mercenari svizzeri di Ferdinando II Borbone (3).
Furono momenti difficili: De Sanctis fu “attenzionato” dalla polizia e, per evitare l’arresto, si rifugiò in Calabria, ospite del patriota liberale Francesco Guzzolini, barone di Cervicati, (4) per fare da precettore al figlio Angelo. Questa la versione ufficiale, ma M. Mirri avanza qualche sospetto circa i veri obiettivi di De Sanctis.

Questi si sarebbe rifugiato in Calabria per contattare il gruppo rivoluzionario di Domenico Mauro affiliato alla setta “Figliuoli della Giovane Italia”, il movimento mazziniano animato da Settembrini: “Il De Sanctis, una volta rifugiatosi in Calabria non avrebbe deposto le speranze e si sarebbe preoccupato di non lasciare le fila dell’organizzazione settaria, facendo ancora centro in quei nuclei calabresi rimasti indenni dagli arresti degli ultimi mesi?” (5).
In proposito, il prof. Toni Iermano, uno degli studiosi più acuti di De Sanctis, riportando una comunicazione espressa dall’alto magistrato Angelo Santangelo durante i funerali di De Sanctis, riferisce che “Il professore avrebbe cercato di tenere i fili dell’organizzazione segreta anche dall’eremo cosentino e di sobillare i congiurati calabresi attraverso messaggi in codice col suo amico, il giurista e fervente patriota avellinese Francesco Pepere”.
Ma in questo senso già Mandalari, a pag.63 di “In memoria di Francesco De Sanctis” (6): “[...] Riparava nella Calabria Citra, e di là cospirava per lettere, in cifre, con Francesco Pepere e con altri generosi quando molti, che vedemmo nei mutati tempi, così fieri e audaci tribuni, si curvavano obbedienti al titanico potere e vivevano contenti nella servitù”.
Non vedo, comunque, contrasto tra le due motivazioni (quella pedagogico-umanistica e quella politica) del “rifugio” calabrese del De Sanctis se si considera l’affermazione delle “due pagine” della sua vita, la letteratura e la politica, realtà e passioni “inscindibili” nel loro nesso dialettico e se si fa una lettura attenta del carteggio  (7) con i familiari e con gli amici-allievi della scuola napoletana.
Non mancano, infatti, a proposito dell’esilio calabrese di De Sanctis, pagine interessanti di insigni studiosi (8), a partire da Croce, (9) che hanno curato, utilizzato e proposto la lettura dell’epistolario desanctisiano.
Leggere l’epistolario di De Sanctis è fare “insieme” un tratto di strada, accompagnarlo per un tratto nel corso di vita, ripercorrendo il movimento di uno spirito intento a dare senso al proprio esistere. Per noi le lettere di De Sanctis dall’esilio calabrese sono, pertanto, un documento storico: da esse apprendiamo notizie utili per cogliere il nesso tra microstoria e macrostoria, tra destino individuale e ricerca del senso della Storia. Apprendiamo, infatti, che nonostante la cortese e rispettosa ospitalità del barone Guzzolini e dei suoi amici, il soggiorno calabrese di De Sanctis non fu sereno, bensì connotato da cupezze, disillusioni, solitudine e nostalgia per la sua Napoli, per i familiari e per gli amici della scuola napoletana.
Qualche exemplum:
Nella lettera del 10 novembre 1849 da Cosenza agli ex-allievi Nicola Mazza e a Liborio Menichini, pur descrivendo con lieve tocco contemplativo il paesaggio calabrese alla confluenza del Crati ed il Busento, De Sanctis non manca di esprimere il dolente suo stato d’animo: “Vi scrivo con innanzi agli occhi uno spettacolo magnifico. Mormorio cheto di due fiumi nel punto che si abbracciano e si confondono in uno, chine dolci e verdeggianti, e sopra il loro capo aridi monti su cui vanno a posare lievemente le nubi. Ma io guardo malinconicamente: non ho un amico, che mi stia accanto e guardi con me. Quanto vi desiro miei cari! Divento stupido, amici miei senza di voi [...] E’ una rara occasione poter parlare con voi, qui non essendo qualcuno con cui si possa parlare altrimenti che con quelle generalità officiose”.
A Oreste Fontana […]: “Qui sono come in Siberia... Napoli non mi è parsa mai sì bella come ora che ne sono lontano, e fuor di me vagheggio talor nella fantasia le amatissime colline, e il vasto e vario orizzonte e il mare, di cui qui non è immagine alcuna, e parmi aver perduta la mia patria diletta” (11).
Sullo stesso “tono” una lettera inviata da Cosenza il 28 marzo 1850 ad un altro ex-allievo, Eduardo Pandola:
“[...]Sai bene ch’io vivo di memorie: poiché il presente è bruttissimo. Tra le care memorie che mi confortano, mi si rappresenta spesso la tua immagine, dalla quale spira suavità e cortesia; e dico in me stesso: ecco un giovane che si ricorda di me. Essere obliato è il più grave infortunio che mi può soprastare: e non me ne so dare pace... La lontananza e la solitudine mi fa credere abbandonato da tutto il mondo”.
A Ferdinando Flores (cui dedicò in seguito il carme La Prigione e affidò i manoscritti delle traduzioni di Hegel e del manuale di Rosenkraz fatte a Castel dell’Ovo): “Se vi è cosa che mi rende meno acerba la mia dimora in questi barbari luoghi è il poter conversare alcuna volta coi tuoi parenti. Sono i soli amici di cuore che vi ho trovati. Ho veduto Papà ed Eduardo, ed ho saputo da essi con piacere che per Matteo si comincia ad avere qualche speranza di prossima libertà” (12).
Al padre Alessandro, il 15 agosto 1850 da Cervicati, prima in tono bonariamente ironico e poi dolente: “[...] Il luogo dove io sto è un villaggio di mille ottocento anime, simile in molte cose a Morra, specialmente per l’amore benedetto del vino. Ho notato, però, che qui i galantuomini passano tutti il loro tempo in campagna e alcuni non si ritirano che la sola domenica in paese. Sotto questo punto di vista il paese è meno barbaro di Morra, dove le Signorie Morresi non si degnano de’ lavori campestri per non sprecare il nobile sangue de’ loro illustri antenati, poltroni, superbi e pezzenti. [...] a me non lascerò altro che la speranza e l’avvenire. Dovunque vado, non mi mancherà mai l’amore dei buoni, ed il frutto di onorate fatiche. Egli è per questo che la sventura non è giunta a domarmi: porto alta la fronte e allegro il volto, e chi mi vede mi tiene l’uomo più fortunato del mondo. Esco dal ritiro di un anno con la stessa confidenza ed audacia che ho avuto a 20 anni e che in qualunque evento conserverò sempre. Alla fortuna appartiene tutto fuor che l’anima; e io l’anima l’ho grande e invitta”.
E ancora, nel novembre dello stesso anno: “Sarò a Napoli a Napoli dopo le feste di Natale, avendomi fatto premura l’eccellente famiglia con cui abito di passare il Natale con loro”.
E a darci un quadro complessivo del soggiorno calabrese di De Sanctis è proprio il figlio del barone Guzzolini, il diletto allievo Angelo che così scrive a Vincenzo Julia (13): “In Calabria le relazioni del De Sanctis furono limitate, vi trovò qualche suo vecchio discepolo, l’abate Lorenzo Greco di Cerisano. Frequentò molto la famiglia De Matera, dov’era amato e tenuto in quel conto che meritava; vi conobbe il capitano F. Palazzi, la famiglia Cosentini di Girolamo, e in mezzo a questi esponeva le sue idee senza reticenze e senza esagerazione; e mentre tutti disperavano, egli aveva fede nell’avvenire. [...]Eravamo in tre o in quattro ad ascoltarlo. Alfonso Marchianò di Cervicati era degl’immancabili. Ogni tanto ci regalava un suo giudizio critico. Non posso dimenticare quello sulla canzone del Leopardi “Alla sua donna”, un altro sul Bossuet, “Discorso sulla storia universale”, un altro su Tiberio negli “Annali” di Tacito con le allusioni ai tempi che correvano, e, infine un confronto tra Jago ed Egisto”.
L’esilio nella “Siberia calabrese”, nelle dimore del barone Guzzolini, tra Cosenza, Cervicati, Cariati, dunque, pur penoso fu proficuo perché si configurò come il tempo del ripensamento ideologico, ripensamento a partire da Leopardi! A Cervicati (dove si era recato con i Guzzolini nei primi di agosto) si dedicò, infatti, alla prefazione all’Epistolario di Leopardi, (14) lesse i drammi di Schiller scritti a Cosenza, scrisse la bellissima lettera al Bonaventura Zumbini (15) resa a noi nota da Benedetto Croce e che si riporta integralmente in nota (16). E forse impostò anche un dramma in prosa, il Torquato Tasso: dramma su modello goethiano e con linguaggio leopardiano!
Dall’epistolario calabrese comprendiamo quanto sia stata feconda la meditazione di De Sanctis sul mistero e sul dolore che accompagna l’umano destino, sulla fortuna cui tutto appartiene “fuorché l’anima”... perché la sua è “grande e invitta”.
Se il suo animo è forte, la fortuna purtroppo non è dalla sua parte: la polizia intercetta una lettera inviatagli da un suo discepolo e il 3 dicembre viene arrestato con l’accusa di essere “uno dei principali agenti della setta diretta da G. Mazzini e da Ledru-Rollin”; il19 dicembre è condotto a Paola. Qui s’imbarca per Napoli, dove è rinchiuso in Castel dell’Ovo...
Il resto è noto.

 

NOTE

(1) “La mia vita ha due pagine, una letteraria l’altra politica, né penso a lacerare nessuna delle due: sono due doveri della mia storia, che continuerò sino all’ultimo”.
Lettera di Francesco De Sanctis a Carlo Lozzi del 25 giugno 1869.

(2) Nel 2013, finalmente il prof. Toni Iermano pubblica in Studi Desanctisiani, 1, 2013 un saggio frutto di studio rigoroso e amorevole nel contempo, esaustivo, illuminante: “De Sanctis, tra Leopardi e la sconfitta della Rivoluzione”.

(3) In proposito, nel Discorso di Trani (29 gennaio 1883) De Sanctis così ricorderà: “Io dicevo che la scuola dev’essere vita; e quando venne il giorno della prova, e la patria ci chiamò, maestro e discepoli dicemmo: - Ma che? La nostra scuola è per avventura un’Accademia? Siamo noi un’Arcadia? No; la scuola è vita - E maestro e discepoli entrammo nella vita politica, che conduceva all’esilio, alla prigione, al patibolo; e i miei discepoli affermarono questa grande verità che la scuola è la vita, chi con la morte, chi con la prigione, chi col confino, chi con l’esilio; ed io seguii le sorti dei miei discepoli, gioioso di partire con loro!”.

(4) Il barone Francesco Guzzolini era stato arrestato nel 1847 perché considerato capo del movimento cosentino e residente in Napoli per concertare la sommossa di Cosenza in coincidenza con quella della capitale borbonica! De Sanctis si convinse ad accettare l’invito ospitale di Guzzolini rassicurato- cosi la moglie Maria Testa riferisce a Pasquale Villari - dal fatto che il barone nel suo appartamento aveva una camera “con trabocchetto” adatta, in quei tempi insidiosi, al rifugio dell’amico.

(5) M. Mirri, F. De Sanctis politico e storico della civiltà moderna. (Messina-Firenze, D’Anna 1961, pag.61).

(6) Ora in Ricordi autobiografici, Morano ed.1884

(7) De Sanctis, Epistolario 1636-56 (a cura di Ferretti, Mazzocchi, Alemanni, Einaudi,1956)

(8) Toni Jermano, Vincenzo Julia, G. Savarese, Emilio Tardini, Teodoro Tagliaferri, Fulvio Tessitore...

(9) Croce, Pagine sparse di Francesco De Sanctis, in La critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia, 10, 1912, pp. 311-315

(11) Epistolario, cit.pag.74

(12) Epistolario, cit.pag.69. I visitatori sono il padre ed un fratello di Flores. Matteo, di cui si nutre speranza di liberazione, è Matteo Vercillo, calabrese, che assieme ai fratelli Ferdinando ed Edoardo era stato allievo di De Sanctis. Matteo e Ferdinando in vico Bisi, Edoardo alla Nunziatella. Il legame con i Vercillo di Calabria fu importante nella vita di De Sanctis e del Settembrini: Carlo Nardi, in “Eventi Risorgimentali. Il Senatore Luigi Vercillo e figli Matteo, Ferdinando ed Edoardo”, pp. VI, VIII (Ed.Brenner. Cosenza, 1970) così riferisce: “Dei figli, allevati ai sensi liberali nell’ambiente domestico e parentale, Matteo, accusato di partecipare ai moti del 15 maggio resta in carcere oltre un anno ed è liberato a seguito di versata cauzione; Ferdinando si adopera con R. Savarese, Paolo Emilio Imbriani a far allontanare clandestinamente da Napoli Settembrini[...] Il minore, Edoardo, malgrado le traversie dei fratelli, non esita con l’affettuosa generosità dell’antico alunno e l’ardimento di giovinezza ad adoperarsi in sulla fine del 1850, in Cosenza, per liberare dall’arresto Francesco De Sanctis, ma con il Maestro finisce nel carcere di Castel dell’Ovo”.

(13) Vincenzo Julia, De Sanctis in Calabria, Castrovillari, tipografia del calabrese, 1884, pag. 7

(14) Il breve ed incisivo saggio Epistolario di Giacomo leopardi contiene in nuce le argomentazioni che poi saranno sviluppate criticamente in altre direzioni e con altri esiti durante le lezioni torinesi e zurighesi. Il saggio-prefazione si configura come un invito a leggere con diletto le lettere di Leopardi perché esse sono “il più eloquente commento alle sue scritture”, perché sono “pietoso racconto dei casi della vita e quasi ritratto dell’animo dello scrittore”, perché da quella lettura possiamo cogliere come “a poco l’infermità dell’anima e del corpo diviene un solo soffrire” e come “in tanta materia di dolore vi è qualcosa pur di sereno... la dignità adorna l’infortunio... c’è la magnanimità la quale è quel tener l’animo sempre alto sui casi umani... serbare in mezzo alle calamità il cuore giovane ed affettuoso”. E se, dunque, le lettere leopardiane sono considerate espressione della “anima di un uomo fattosi anima dell’universo” è pur vero che nel discorso desanctisiano si rivela il gioco di rispecchiamento autobiografico: De Sanctis vede nel leopardi delle Lettere un alter-ego. C’ è una sorta di intimità col recanatese: come Leopardi anche De Sanctis è angustiato dalle avversità della vita: crudele fortuna, gretta incomprensione del mondo, dolorose peregrinazioni, difficoltà materiali, vicissitudini editoriali... Come Leopardi anche De Sanctis crede fortemente nel sentimento-valore dell’Amicizia. Noi lettori possiamo,pertanto, comprendere in che senso “il dolore e l’amore siano la doppia poesia di queste lettere”.

(15) De Sanctis così scrive: “[...]Io l’ho conosciuto giovanissimo in Cosenza sua patria; e mostrava fin d’allora ingegno pronto e molta serietà di vita”.
E Croce annota: “Infatti, lo Zumbini aveva allora 14 anni; e, come risulta da questa lettera, era già lettore e studioso di quel Leopardi al quale rivolse dipoi tutte le migliori forze della sua mente, e pensoso, col Leopardi, del problema del mondo e del dolore...”

(16) A Bonaventura Zumbini. [Cervicati, agosto 1850]
La tua lettera caro Ventura, è una bella testimonianza di stima e di affezione, di cui riconosco tutto il valore; e non posso ringraziartene altramente che col parlarti con quella franchezza e libertà, che si usa co’ veri amici. Il tuo dolore è prematuro: alla tua età non conviene che la vita esterna. La bellezza di un giovinetto è riposta nella ingenuità del core e nella schiettezza della fantasia: allontana dunque da te il cupo, il tetro e il fantastico. Lo stesso Leopardi, martire dell’umano dolore, a diciotto anni era ancora speranzoso e fidente, lo attesta quella sua nobilissima canzone all’Italia, piena di fuoco e di rigoglio giovanile. Affliggersi de ’mali della vita a quattordici anni è troppo presto: nuovo del mondo, tu non puoi averne ancora piena coscienza. Quando sarai fatto più grande, diverrai più indulgente cogli uomini e colla Provvidenza; e intenderai che talora sotto la barbarie si nasconde l’energia, e che dall’eccesso del male suol nascere il bene. E poiché so quanto ti diletta il Leopardi, concedimi, mio buono ed amato Zumbini, che io ti faccia una osservazione. Giacomo tra le altre sue calamità ebbe la sventura di nascere in tempi di transizione, in cui sulle rovine del passato non essendo sorta ancora alcuna speranza di lieto presente, all’uomo giusto non rimanea altro che il voto dell’intelligenza e la disperazione nel cuore: ed egli grandissimo ritrasse con profondità la vacuità dell’umano sapere, e lo strazio dell’anima solitaria, e zimbello e vittima di perpetue illusioni. Canto funebre di tempi scettici ed infelici! Ora i tempi sono mutati; e Leopardi è morto senza formare una scuola come quella de’ Dantisti, de ’Petrarchisti e de ’Boccaccevoli. Il sentimento che ora dee dominare ne’ nostri cuori, è tutto il contrario della disperazione: è la fede. Fede invitta nell’ordine generale delle cose, poco importa il quando o il come. Noi forse morremo calpestati e miseri: e che c’importa di noi? Non è nell’interesse del tale o del tal altro che il mondo cammina. L’uomo dee farsi superiore alla sua individualità, e vivere e godere della vita generale ed umana. Morendo, noi possiamo dire con orgoglio: -Il mondo sarà libero- Ecco la Fede, che dee allontanare da te l’angoscia del presente ed il sentimento de’ tuoi mali individuali, e farti dolcemente sorridere innanzi allo spettacolo contradittorio delle apparenze presenti. Il dolore è la proprietà degli animi generosi; ma all’uomo si conviene di soprastare ad esso, se non vuol parere meno che femmina. Su dunque, lascia questo codardo fantasticare ; apri il tuo cuore alla speranza, all’amicizia, alla fiamma degli affetti, all’ardore dello studio; ravviva il tuo animo, rinfranca il tuo corpo indebolito; ché ogni uomo è debitore al paese di tutto se stesso, e non curare la tua salute è delitto, non dirò verso di te, ma verso del tuo paese, Abbi queste franche parole come segno di candida e schietta amicizia ; e se hai di me stima alcuna, son certo che vorrai conformarti ai miei consigli. Ti prego di salutarmi cordialmente Collice e tu ama sempre
Il tuo aff.mo Francesco De Sanctis.

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