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A Terranova si discute sul capitello della discordia

A Terranova si discute sul capitello della discordia
Agos

TERRANOVA DA SIBARI - «Alcuni gesti, apparentemente minimi, tali da passare -agli occhi dei più- quasi inosservati, nonostante la loro rilevanza, sono, invece, frutto di una condotta volitiva che tende a indirizzare -nel senso di deviare- l’attenzione che col tempo diventa, nelle persone, passiva accettazione, fatto compiuto, dimenticanza». Così in una nota il presidente dell'associazione “Officina dello Scompiglio”, Angiolino Armentano, chiosa su una faccenda legata ad un capitello della facciata dell'antico teatro di Terranova da Sibari. «Nelle relazioni private -continua- queste dinamiche assumono un valore relativo e circoscritto, appunto, al privato. Altro è se tali condotte hanno carattere pubblico, ovvero, se sono messe in atto dalla politica per i suoi fini.

Consideriamo quest’ultimo caso. In genere la politica, rispetto alla propaganda, è implementativa, quindi “aggiunge” messaggi, segni, immagini, ma si può verificare anche l’opposto. Questo accade per occultare, nascondere ciò che non si desidera più che sia evidente e “attuale”, per cancellarne le tracce. Nell’antica Roma si chiamava “dannatio memoriae”.
Il caso in esame comprende entrambe le dinamiche (“aggiuntive” e “sottrattive”), attuate dal potere politico/amministrativo terranovese che, anche se a distanza di tempo, ripropone mentalità e ideologìe affini.
Nell’epoca in cui la democrazia nel nostro Paese fu sospesa ad opera di quella drammatica allucinazione che fu il Fascismo, questo, come tutti i regimi totalitari, ha costruito un sistema di propaganda che ha coinvolto tutti i mezzi di comunicazione, allora a disposizione, al fine di raggiungere e permeare delle sue “eroiche gesta” il popolo, velletariamente definito di “Santi, Poeti e Navigatori”. Anche l’arte, in questo periodo, ha una sua estetica che si manifesta con maschia presenza e simboli di “potenza”, non a caso il regime si sente erede legittimo della Roma antica e dei suoi fasti e, difatti, ne adotta gli emblemi. I regimi hanno bisogno di simboli e laiche liturgie.
Facendo i necessari distinguo, anche nel nostro paese (con la p minuscola!, Terranova), abbiamo avuto un episodio che, a nostro avviso, ricopre un particolare significato che coinvolge più livelli. Ossia, uno di natura più strettamente storico (legato a come sono andati i fatti), sociale e l’alto di natura culturale, cioè come sono stati “interpretati” e i conseguenti risvolti.
Quando il Consiglio Comunale di Terranova, del periodo in esame, ha deciso di collocare su un lato della facciata del Palazzo De Rosis un capitello, eradicandolo dalla prima parasta a sinistra della facciata del “Teatro”, in piazza Castello, ha, certamente, fatto una scelta discutibile –di cui diremo-, ma coerente con l’ideologia fascista.
Abbiamo detto che i regimi si nutrono di emblemi e quale meglio di “quel” capitello corinzio, con al centro un’aquila rampante con le ali dispiegate, come gli emblemi dell’antica Roma, (l’aquila sui capitelli del Teatro si riferisce allo stemma degli Spinelli che lo fecero erigere), poteva significare la presenza del nuovo regime a Terranova da Sibari? Infatti il capitello fu collocato sulla facciata del centrale palazzo De Rosis con, in più, inciso sull’architrave “Piazza Michele Bianchi” che rinominò, appunto, la piazza. La titolazione della piazza a Michele Bianchi, quadrumviro della “Marcia su Roma”, non solo è un omaggio al conterraneo “illustre” (era nato a Belmonte, (1883-1930), ma mostra che qui, come altrove, il regime usa i metodi della propaganda pervasiva prendendo possesso degli spazi pubblici con simboli e titolazioni. Quella del fascismo, quindi, è anche un “allocarsi”, un prendere possesso dell’ambiente visivo che comprende, tra l’altro, le scomparse scritte sui muri delle case di frasi della retorica di regime.
Il gesto citato sopra, ancorché scellerato, di rapina rispetto a un antico monumento, è un episodio, a nostro avviso, di grande rilevanza per la nostra storia politica e civile che, come vedremo, ha una sua prosecuzione nei fatti che seguirono la caduta del fascismo con risvolti, recenti, a nostro avviso, dello stesso stampo ideologico.
Il capitello, infatti, alla caduta del fascismo è stato ancora protagonista -e testimonianza visibile, fino a pochissimo tempo fa, ma di questo diremo dopo- della reazione popolare per la ritrovata libertà.
Il sommovimento che investì Terranova all’indomani della caduta del regime registra anche episodi curiosi, ma il gesto compiuto da un popolano un certo sig. Serravalle, è da annoverarsi tra quelli emblematici di un popolo che ha subìto dal fascismo angherie e restrizioni e, per ciò stesso, questo nome, sarebbe degno di ricordo e commemorazione.
Infatti l’atto compiuto da Serravalle, che raggiunse il capitello e scalpellò via “Michele Bianchi”, lasciando la sola scritta “Piazza”, non è l’atto personale di un individuo, ma rappresenta il generale sentimento popolare che vuole letteralmente cancellare il fascismo e riaffermare il valore civile della libertà. L’aver risparmiato la scritta “Piazza” vuol dire rivendicare la ritrovata libertà di riunione ed espressione del libero pensiero senza censure, riaffermare il valore civile dell’“agorà”, della democrazia.
Come è evidente le vicende legate al “capitello” non sono di scarsa rilevanza e valore storico, ma le sue vicissitudini non si concludono qui, avendo un risvolto non in anni recenti, ma diremmo, nella cronaca odierna che ha tutti i connotati, se non si cambia direzione, per trasformarsi in fatto, ahimè, “storico”, ma in senso tombale.
Con la recente manomissione (di questo si tratta!) del Palazzo De Rosis, che gli amministratori definiscono “ristrutturazione” e non “restauro” -come se con i manufatti storici si potesse giocare con le parole, per occultare incompetenza e cinismo- il capitello è stato rimosso e collocato al suo interno, in un “museo”.
Questa soluzione -come un’altra paventata, ma per fortuna inattuata di ricollocazione del capitello nella sede originaria della facciata del “Teatro”- è semplicemente sbagliata. E’ errata, ma soprattutto scorretta sotto il profilo del “trattamento” che subirebbe un bene antico che sì, è storico per età e destinazione originaria -per cui lo si vorrebbe collocato dove era stato previsto- ma che le vicende di cui è stato “protagonista” e simbolo, lo “ricollocano” in un “nuovo” ambito storico. Un ambito altrettanto significativo sul piano della memoria collettiva e della testimonianza di eventi che sono essi stessi fatti storici e, quindi, non cassabili, non negoziabili rispetto al suo status di elemento architettonico di un sia pur antico monumento, qualora si pensasse di ricollocarlo sulla facciata del teatro da cui proviene. E, comunque si contravverrebbe alla consolidata prassi cui sono sottoposti beni con queste “vicissitudini”.
Si pensi -per fare qualche esempio sproporzionato e un po' “decentrato”- a tutti quei monumenti eretti in ambito medievale (ma la prassi è stata comune per secoli), dove colonne, capitelli, trabeazioni, ecc… di epoca romana erano inclusi nelle “moderne” chiese romaniche, chi penserebbe di estrapolarli? Chi “dissocerebbe” dalla celebre Lupa Capitolina -già creduta etrusca ma medievale e, per restare in tema, cara a Mussolini- i sottostanti gemelli -realizzati appositamente- dal Pollaiolo nel ‘400, cioè centinaia di anni dopo per un presunto rispetto di filologìa stilistica o di realizzazione?
Insomma, un bene antico non ha solo valore -tra l’altro- di testimonianza del periodo che lo ha generato, ma anche per la storia che, col tempo, su di esso si “scrive”, delle vicende di cui si rende, suo malgrado, protagonista o, appunto, testimone.
Per le ragioni sopraddette a nostro avviso il capitello “deve” essere ricollocato sulla facciata di palazzo De Rosis, affinché continui a essere visibile testimonianza di memoria della storia cittadina (tra l’altro le nuove generazioni che hanno convissuto per anni con quella presenza, da una breve indagine, hanno già dimenticato che lì c’era il capitello, e mi riferisco memoria della sola presenza fisica, visiva !).
Non si può cancellare (chiudendo in uno pseudo museo) la storia che il capitello si porta addosso che va dal suo essere parte decorativa di una facciata, al malsano sfregio dei gerarchi che lo asportò dalla sua sede per i loro fini politici, all’azione popolare, politica e civile, di negazione di quell’ideologia per riaffermare i valori democratici.
Noi vorremmo che il capitello continuasse, con la sua ricollocazione sul palazzo De Rosis, a ricordare, a “parlarci” ancora -tramite uno sguardo- di quegli avvenimenti i cui segni porta indelebilmente su di sé. O, forse, “non far vedere”, “chiudere” alla conoscenza immediata e diretta è la vera intenzione di chi ha presa la decisione di nasconderlo agli sguardi? D’altro canto il segno politico dei “decisori” è lo stesso di coloro che compirono lo scippo, ma se così non fosse, se è volontà degli amministratori non “scippare” alla comunità questa straordinaria comunicazione di democrazia, non resta che con “pronta decisione” si proceda a rimettere il capitello al posto che gli spetta: nello spazio, nella storia e a favore del tempo e della memoria».
Intanto, sulla questione, il presidente dell'associazione “Officina dello Scompiglio”, ha fatto una segnalazione alla Sovrintendenza ai Beni Artistici e Storici di Cosenza.

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