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Natale con i tuoi...

Parlare oggi della celebrazione della principale festa della cristianità legata alla nascita del Redentore, non provoca nelle nuove generazioni, o, almeno, in buona parte di esse, le stesse sensazioni che “ai miei tempi” l’avvenimento suscitava in grandi e piccini, nelle persone colte come negli analfabeti, nei ricchi come nei poveri. Il Natale del Signore era considerata la festività principale fra quelle in calendario nel corso dell’intero anno solare. Un evento che veniva vissuto secondo una rigida prassi interamente legata al dettato della Chiesa che pareva inamovibile nello spazio e nel tempo.

La prassi familiare prevedeva, come primo atto della giornata, il bacio della mano al genitore. A seguire, tutta la famiglia vestita a festa si recava ad ascoltare la Santa Messa nella parrocchia di appartenenza, oppure nella Chiesa Matrice dei SS. Pietro e Paolo. All’uscita, sul sagrato si scambiavano gli auguri fra amici e conoscenti. Da premettere che in tanti avevano già seguito la Messa di Mezzanotte nel corso della quale il celebrante annunciava la nascita del Signore Gesù. Ci si recava quindi in casa dei parenti per un ulteriore scambio di dimostrazioni di affetto. A seconda degli accordi presi in precedenza, ci si recava quindi in casa del parente presso cui si sarebbe consumato il pranzo, o si ritornava nella propria abitazione se era questa la sede prescelta per una sorta di ricomposizione a tavola di esponenti del casato che magari vivevano altrove. Di rigore era la rappresentazione della nascita del Signore mediante l’allestimento del presepe, rimanendo sconosciuto l’addobbo dell’albero di Natale, una consuetudine molto più tardiva importata assieme alla figura del “Babbo Natale” dalla straripante cultura anglofona.
Il complesso cerimoniale aveva avuto, comunque, un preliminare la sera della vigilia (il giorno 24), quando si consumava il cosiddetto “cenone” nell’ambito familiare, dal cui menù, composto da non meno di nove pietanze diverse, erano bandite le carni ed esclusivamente basato sul consumo di pesce e fra questi, in primis fra baccalà, razze, triglie e quant’altro, ove lo status economico lo consentiva, non mancava l’ambìto “capitone”, ovvero l’anguilla di notevoli dimensioni.
Il cosiddetto cenone della vigilia, si concludeva, oppure, a seconda della prassi familiare, subiva un inserimento a mo’ di intervallo fra le varie pietanze, utilizzato dai più piccoli per leggere la “letterina di Natale”, una sequela di ‘mea culpa’ riferiti alle marachelle del passato e di buone intenzioni per l’anno che stava per iniziare. Il ‘documento’ predisposto a scuola col concorso della maestra era posto, con la “complicità” della mamma, sotto il piatto del genitore. Questi, fingendo di non accorgesi della macchinazione puntualmente messa in scena ogni anno e mostrando grande sorpresa al momento del ritrovo della missiva quando gli veniva sostituito il piatto, dopo averne ascoltata la lettura fra balbettii e incitazioni e la sua conclusione fra applausi e baci, estraeva qualche moneta dal portafoglio che faceva la felicità del bambino. Rapportandoci ai tempi, è significativo ricordare che intorno agli anni ’50 del secolo scorso, 250 lire, oggi equivalenti a 0,13 centesimi di €uro (praticamente un nonnulla), rappresentavano un regalo eccezionale considerato che potevano equivalere al costo di un testo scolastico per il cui acquisto oggi si spendono non meno di 5 €uro corrispondenti a 9.680 lire, somma con la quale, all’epoca, si sarebbero potuti acquistare ben 1.936 coni gelato da lire 5 cadauno!
Il successivo giorno 26, festa di Santo Stefano, ormai satolli oltre ogni dire, a tavola si consumava quello che non si era riusciti a finire il dì precedente.
Da questa sorta di racconto, una sommaria ricostruzione della festività del Natale di una sessantina di anni fa, emergono due elementi fondamentali: il primo riguarda la sua sostanziatale conferma in un’epoca quantunque permeata da una cultura globale vissuta attraverso le conquiste tecnologiche. Il secondo elemento, strettamente conseguente, è riscontrabile, allora come oggi, nella sostanziale commistione fra sacro e profano, il che denota l’esistenza di una società e di una cultura, le nostre, capaci di contemperare gli aspetti secolari con i valori prettamente cattolici, senza soluzione di continuità e senza contrapposizioni. Una società civile che dà valore universale alla vita e all’insegnamento di Cristo, autentico cibo dell’anima assunto in un contesto umano che, nel suo culmine, dà un significato altrettanto universale al cibo del corpo, analogo segno di un’esistenza quotidiana che trova la sua massima espressione in uno con la massima celebrazione della divinità fattasi persona attraverso la nascita nel più umile dei luoghi e dei modi, poi proseguita attraverso la breve, ma intensa esistenza terrena, culminata nel Calvario.
E’ probabilmente questo e solo questo il significato da dare alla nostra società quando si prende ‘la briga’ di proclamare la sua laicità vissuta in un contesto ultraterreno. Una società apparentemente ultra secolarizzata ma capace di reagire ad ogni scossone portato alle sue radici cristiane, specialmente da quando, con la fine certificata della teocrazia ormai dopo più di due secoli e mezzo, intravede un qualunque tentativo, da qualunque parte esso provenga, capace di mettere in discussione un assetto paritario fra valori temporali e principi eterni che nella nostra civiltà occidentale e nelle coscienze di tutti i suoi appartenenti, hanno ormai trovato pieno diritto di cittadinanza.
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