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Ieri e oggi: la scuola - la società

La scuola e i genitori di oggi hanno poco o nulla in comune con la scuola e i genitori di ieri. Ovviamente. Perché entrambi sono frutto di una società diversa. Diversa in tutto.
Naturalmente non è ragionevole, anzi è del tutto fuori luogo fare facili paragoni fra passato e presente condannando o assolvendo senza valutare il peso delle infinite variabili fra epoche e persone, e quindi fra culture e società. Il primo scoglio in un’operazione del genere, effettuata a tavolino, lo si incontrerebbe sul valore temporale da dare al termine “ieri”, che potrebbe riferirsi a qualsiasi epoca storica, arrivando ad includere anche la scuola e la società dell’antica Grecia, per fermarci ai prodromi della cosiddetta “civiltà occidentale” a cui tanto spesso amiamo richiamarci.
Ogni cultura genera una scuola e un’educazione atta a formare la futura classe dirigente, col recondito scopo di perpetuare se stessa. Ogni cultura, quindi, tende ad una istintiva cristallizzazione, scontrandosi in questo con l’altrettanto istintiva voglia di cambiamento insita nell’uomo che si serve delle nozioni trasmessegli dalla cultura di cui è figlio, per poi superarla. Si verifica, così, la strana situazione per cui il giovane chiamato dalla società a dover difendere e trasmettere i valori che hanno riempito di contenuti la propria esperienza formativa, contro quegli stessi valori scaglia i più duri anatemi che contribuiranno al progresso della società.
Vista in questo modo, la famiglia e la scuola che prodigano le più amorose cure al figlio\alunno, inconsciamente, non fanno altro che predisporre le condizioni per il superamento di quella stessa società che vorrebbero venisse difesa proprio da chi di quei valori nutrì le sue prime radici.
Ecco dunque, il grande dilemma: quale uomo la scuola deve formare? Quello di oggi o quello del futuro? E quindi, esiste oggi una scuola che sia capace di formare l’uomo di domani?
Se diamo il valore che merita a questo ragionamento, siamo subito portati a sospendere ogni giudizio, negativo o positivo che sia, verso la scuola.
Dando per scontato che la società nel suo insieme tende ad un istintivo miglioramento della forma di vita, vista nei suoi molteplici aspetti (economico, relazionale, del rispetto delle diversità, dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri, etc.), appare evidente che, alla fine, ogni generazione, reclamando il proprio diritto di modificare lo status quo, non fa altro che difendere il diritto\dovere di plasmare la società secondo il proprio punto di vista, che è sempre differente dalla visione del mondo a cui era legata l’esperienza di vita della generazione precedente.
Sta tutta qui l’incomprensione fra genitori e figli. Fra i genitori attanagliati da una cultura che, a loro dire ha prodotto una società degna di essere tramandata ed i figli, che di quella cultura vedono tutti i lati negativi che vorrebbero spazzare via con un colpo di spugna. Fra i primi che non sanno e non possono offrire una educazione che neghi se stessi ed i secondi che da un’educazione sempre inadeguata alle proprie aspirazioni, devono estrapolare quei soli contenuti positivi, che pure ci sono, per creare le premesse per la creazione di una società nuova che appena realizzata è già vittima della contestazione operata della generazione successiva.
La scuola è il terreno minato per eccellenza dove ogni generazione si gioca il proprio futuro. Basta questo solo motivo per dare alla scuola la patente di laboratorio dell’umanità, ove non ci sono certezze da trasmettere, ma solo aspirazioni da realizzare.
Una breve riflessione è doverosa, a questo punto, fra la scuola “che andava forte” negli anni a cavallo le due guerre mondiali e quella che oggi vivono le nuove leve di studenti dei vari ordini e gradi di istruzione.
Quando oggi si dice che la scuola non è più quella di una volta, basata sul rigore formale, sulla disciplina esteriore, sull’apprendimento mnemonico, sulla figura del maestro che, autonomamente “giudica e manda secondo ch’avvinghia”, ci si dimentica della massa di alunni bocciati che abbandonavano anzitempo le dure panche delle affollate classi solo perché non raggiungevano le “vette del sapere”, sorvolando sul fatto che queste immaginifiche vette erano appannaggio esclusivo di un ridottissimo e ben individuato manipolo di predestinati che partiva con un forte vantaggio garantito dalla posizione dominante in campo culturale, sociale, economico e quant’altro, della famiglia di appartenenza.
Per contro, la massa degli alunni che non poteva competere alla pari, non potendo avere nulla di tutto ciò, (aveva già avuto il privilegio di “andare a scuola”), non riusciva a coprire con le sole proprie forze neanche il gap iniziale, rimanendo fra i predestinati ad un veloce abbandono.
La scuola, è risaputo, non era per tutti. I pochi che seguivano un percorso scolastico lineare appartenevano ad una èlite che da grande avrebbe ricoperto il ruolo lasciatogli in eredità dal padre. La stragrande maggioranza, infatti, e fra questi in maniera preponderante i maschi primogeniti, proseguivano senza scosse la carriera paterna, limitandosi tutt’al più a cambiare la vecchia poltrona.
Oggi non è proprio più così.
Quantunque i privilegi siano duri a morire, oggi il fenomeno più allarmante è la cosiddetta “fuga dei cervelli” verso società e culture più predisposte al cambiamento ove non conta il cognome che si eredita, bensì le capacità culturali acquisite.
Il risultato è comunque allarmante. Le comunità periferiche languono nell’abbandono, assumendo la veste di paesi-ospizio. Ogni attività cessa con la morte dell’ultimo artigiano e i cani randagi la fanno da padrone.
Non so se bisogna rassegnarsi e aspettare gli eventi, magari emigrando in massa verso società e culture estranee o “fare qualcosa” per invertire la rotta verso una nuova stagione identitaria chiamando a raccolta le residue idee di una gioventù che preferisce mettere nuove radici negli stessi luoghi ove ha speso la propria giovinezza da studente, piuttosto che ritornare nel “natio borgo selvaggio” per respirare l’aria che lo consacrò alla vita.
Ma sono queste parole al vento. L’unico legame che resta, al di la di una breve visita estiva, è quella ben più mesta che si compie il giorno della commemorazione dei defunti, quando diventa quasi un obbligo tornare per deporre un fiore sulla tomba dei propri cari.
In questo caso al cimitero si possono fare interessanti incontri fra ex compagni di scuola che volentieri ricordano un passato che non torna. © Riproduzione riservata



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