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Di infanzia e di anarchia…

I bambini per loro stessa natura sono anarchici: del tutto refrattari alle regole, meravigliosamente istinto. La mia, di bimba, poi nell’anarchismo eccede, ma credo sia una questione genetica. L’importante è che segua tre regole (fondamentali per la nostra sopravvivenza): tenermi la mano quando usciamo, mangiare seduta, andare a dormire presto. Per il resto si naviga un po’ a vista con buona pace di consigli non richiesti, manuali di pedagogia, e tata Lucia. I cartoni sono una costante del nostro viver quotidiano (sforiamo di gran lunga la mezz’ora consigliata), “Masha ed Orso”, così come Peppa Pig onnipresenti.

Io, lei, lui e un divano

La felicità non esiste, o almeno quella totale che ti fa vivere in un perenne stato di euforia. Esistono le conquiste personali, le soddisfazioni, gli attimi di adrenalina pura, gli affetti che ci rendono meno soli in questo eterno errare che è la vita. Ognuno di noi ha il proprio concetto di felicità, e, per dirla con Tolstoj, “le famiglie felici si somigliano tutte, ogni famiglia infelice lo è a suo modo”. Sulle famiglie, così come sugli individui, non può calare dall’alto di cliché pubblicitari un’idea unica di “felicità”, un modello egemone. E per fortuna, anche se gli stereotipi sono ancora tanti, da un po’ si legge di famiglie non da mulino bianco, di madri non sempre perfette e felici e sorridenti, la famiglia sembra diventare più reale.

Piscine, mamme e tormenti

La piscina oltre ad essere un (bel) film del 1969 di Jacques Deray, con Alain Delon e Romy Scneider ed un programma che risale all’estate del 1991 condotto da Alba Parietti, è anche il mio, nostro (mio e di Ginevra), appuntamento del venerdì. È da due settimane che io e la mia anarchica bimba ci dedichiamo alla nobile arte non della box ma del nuoto. La prima lezione è stata un tormento: Ginevra mantenendo fede al suo anarchismo non si è fatta mettere né costume né cuffia (lei non si omologa) ed è entrata in acqua solo con il pannolino atto all’occasione. Una volta finita l’ora non voleva più uscire.

Improvvisando

La vita, si sa, è eterna improvvisazione. C’è sempre qualcosa che sfugge o che non si incastra perfettamente, c’è sempre un equilibrio da reinventare ed un nuovo orizzonte da esplorare. Ciò avviene non solo per i GRANDI cambiamenti dell’esistenza, ma è nel vivere quotidiano che le nostre abilità circensi devono palesarsi completamente. Succede di essere migrante. Succede di essere donna. Succede di essere mamma. Succede (e vivendo in Italia è proprio il caso di scrivere succede…) di lavorare. Succede di non avere nessuno che possa tenere Ginevra. E allora l’arte dell’improvvisazione deve esplodere in tutta la sua essenza.

E poi ci sono le donne “Perfette”

 

Esistono (a differenza dei dinosauri non si sono ancora estinte) le nemiche numero uno della questione di genere e dell’universo femminile tutto: le donne. Quelle perfette (o che credono di essere tali). Con le loro vite perfette. Con mariti e figli perfetti. Con matrimoni da far invidia ad Albano e Romina dei tempi d’oro.

L’attesa.

anna de blasiAttendere qualcuno o qualcosa è snervante,nella migliore delle ipotesi. I rimandi filosofici/letterari sono infiniti: uno su tutti Samuel Beckett, padre del teatro dell’assurdo. Aspettando Godot, la sua opera più nota, oltre ad averci spiegato molto sulla condizione umana, ( non è, forse, il destino di tutti aspettare qualcosa che non arriverà mai? Tutti noi chi più chi meno consapevolmente viviamo nel nostro privatissimo palcoscenico in attesa di quel Godot che non arriverà mai sulla scena) ed oltre ad essere anche una bellissima canzone di Claudio Lolli, è diventato un modo di dire. Ma anche l’attesa ha le sue sfumature. Essa può essere bella come il desiderio. Ed anche qui i riferimenti colti non mancano: dal (sempre) mio amatissimo Giacomo Leopardi all’adorato William Shakespeare, da “La sera del dì di festa” a “Romeo e Giulietta”, passando per la pubblicità del Campari. E’ vero: l’attesa è essa stessa piacere, desiderio, attimo sublime dia infinita emozione, bellezza palpitante. Basti pensare alle nostre di vite, al di là di Leopardi e Shakespeare. Nell’attesa di un ritorno o di una partenza è già insito il viaggio stesso. Così come nell’attesa di un bacio vi è già il sapore dell’amato. Gli esempi potrebbero essere infiniti, ma la mia mente corre veloce ai ricordi, quell’unico paradiso dal quale non potremo mai essere cacciati, per dirla con Sartre. E nei ricordi l’anima si perde nell’infanzia. In questo clima pre-natalizio ricordo l’attesa del regalo, dell’albero, della cena dai nonni, della recita scolastica, un’attesa che non ha avuto più la stessa intensità. Vale per il Natale, l’estate, il mare, se pur (mio malgrado o per fortuna, non saprei dire) molte emozioni giungono ancora da una me stessa bimba alla me stessa adulta, ma l’infanzia è lontana, passata, finita. Alcune emozioni le avevo accantonate. Fino ad oggi. Giorno in cui attraverso due occhioni, grigi ed immensi, ho capito cos’è il valore dell’attesa. Della felicità, e forse della vita. Con mia figlia gioco a “Ti prende mamma”, lei sta nel box, o in braccio a mia madre o al mio (quasi) marito, io corro verso di lei, e rido, e la prendo, e la coccolo. Nel momento in cui mi allontano per tornare lei ride di gioia, solo al pensiero che il gioco sta per ricominciare è felice. Nell’attesa, di me e del suo gioco preferito. Ed il suo sguardo gioioso è stato capace di spiegarmi molto meglio di tutta la poesia di Leopardi l’attesa della felicità. Senza parole, senza infinito né luna, l’attesa ha avuto un senso. Il più poetico. Il più vero.

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