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Il brigantaggio: la storia vista dagli sconfitti

Il brigantaggio: la storia vista dagli sconfitti

Quando Garibaldi giunse in Sicilia emanò il proclama di Calatafimi con cui invitava i siciliani ad unirsi al suo esercito per cacciare Francesco II ed unire il Meridione al nuovo stato italiano in cambio della distribuzione delle terre demaniali.
Ben presto i Mille divennero migliaia tanto che nel giro di poco tempo sbaragliarono lo sgangherato esercito borbonico continuando la marcia trionfale fino al Volturno dove avvenne la battaglia decisiva con la sconfitta dei Borboni.
Tutto sembrava filare liscio, se si eccettua l’episodio di Bronte dove alcuni contadini invasero la tenuta dell’Ammiraglio inglese Nelson con conseguente fucilazione.

I problemi cominciarono subito dopo la proclamazione del regno d’Italia quando a Garibaldi fu negato di far entrare nell’esercito italiano i garibaldini per cui la grande massa di soldati fu congedata andando a costituire l’esercito di disoccupati.
Ben presto il problema divenne politico dal momento che sia la propaganda borbonica sia il clero cominciarono a sobillare il popolo contro gli invasori. La rivolta incominciò a serpeggiare anche perché quelle terre promesse da Garibaldi anziché essere divise fra i contadini poveri furono messe in vendita e acquistare dai ricchi proprietari terrieri che, subodorando l’affare, si erano apprestati a passare dalla parte del vincitore.
La delusione, la rabbia del popolo si trasformò ben presto in aggressioni contro i ricchi proprietari ed anche contro le guarnigioni disseminate nei vari paesi.
L’atto di protesta non fu compreso dai governanti che interpretarono quei comportamenti come atti di sovversione e quindi passarono alla repressione che fu feroce e implacabile tanto da far parlare qualcuno di genocidio.
Per dare il senso e la portata del fenomeno basta dare alcune cifre, che forse sono parziali: Cinquemiladuecentododici condanne a morte, 6,564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti alcuni sui campi di battaglia, ma la maggior parte nei campi di concentramento istituiti per deportare la massa di briganti, fiancheggiatori o inermi cittadini.
La presenza dell’esercito divenne sempre più consistente fino a raggiungere la cifra di 120.000 unità. Questa guerra che durò dal 1860 al 1865 fu una guerra cruenta che disintegrò il tessuto economico e sociale dell’intero Mezzogiorno con conseguenze disastrose di cui ancora oggi si avvertono le ripercussioni.
A questo bisogna aggiungere le spoliazioni che furono fatte non solo dal punto di vista finanziario con l’incameramento dei beni del Banco di Napoli, ma anche con il trasferimento di alcune industrie dal Meridione al Nord del paese.
Ma chi era il brigante: «Lo dirò io, nato e cresciuto tra essi -afferma F. S Sipari di Pescasseroli-. Il contadino non ha casa, non ha campo, non ha vigna, non ha prato, non ha bosco, non ha armento; non possiede che un metro di terra in comune al camposanto. Non ha letto, non ha vesti, non ha cibo d'uomo, non ha farmachi. Tutto gli è stato rapito dal prete al giaciglio di morte o dal ladroneccio feudale o dall'usura del proprietario o dall'imposta del comune e dello stato. Quando lavora dalla mattina alla sera guadagna 85 centesimi che servono per far sopravvivere il vecchio padre, spesso invalido dalla fatica già passata, e senza ospizio, la madre, un paio di sorelle, la moglie e una nidiata di figli. Se gli mancano per più giorni gli ottantacinque centesimi, il contadino, non possedendo nulla, nemmeno il credito, non avendo da portare nulla all'usuraio o al monte dei pegni, allora (oh, io mentisco!) vende la merce umana. esausto l'infame mercato, pigli il fucile e strugge, rapina, incendia, scanna, stupra, e mangia. In fondo nella sua idea bruta, il brigantaggio non è che il progresso, o, temperando la crudezza della parola, il desiderio del meglio».
Il brigantaggio non fu, come molti vollero far credere un fenomeno delinquenziale, ma un movimento di popolo che forse in buona fede e in modo primitivo cercò il suo riscatto pagando un pesante prezzo in termini di vite umane e di perdita della sua identità.
«Abbiamo ancora il diritto di liquidare la tragedia del brigantaggio meridionale come una manifestazione di furia bestiale e di delinquenza o non dobbiamo, invece, interrogarci -si chiedeva nel 1970 Giovanni Russo- sulle cause sociali e politiche che la determinarono... Dobbiamo ancora ritenere i «briganti» soltanto ladri ed assassini o non dobbiamo, invece, ravvisare in essi uomini appartenenti ad una classe sociale che, in una rivolta disperata, reagiscono alle condizioni di dura miseria e di ingiustizia sociale che caratterizza la società meridionale?».
Poiché la storia la scrivono i vincitori e non i perdenti si è presentato il brigantaggio come il peggior crimine contro lo stato unitario e non come un atto di rivolta contro i soprusi e le angherie di una classe politica locale e nazionale corrotta e incapace.

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