Di paesaggi guariti e memorie risanate
- Scritto da Mario Gaudio
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- Pubblicato in L'angolo del libro
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L’umanità ha da sempre avuto un atteggiamento bifronte nei confronti della memoria e la letteratura, fedele specchio della vita e dei tempi, ha provveduto in più occasioni a registrarne gli esiti.
Da un lato, si è sviluppato un senso di repulsione verso il ricordo. Ne dà testimonianza l’argentino Jorge Luis Borges (1899-1986) che, in uno degli scritti contenuti nel volumetto filosofico-letterario intitolato Altre inquisizioni, racconta un episodio particolarmente significativo: «Il fuoco, in una delle commedie di Bernard Shaw, minaccia la biblioteca di Alessandria; qualcuno esclama che brucerà la memoria dell’umanità, e Cesare gli dice: Lasciala bruciare. È una memoria d’infamie».
Dall’altro lato, parafrasando il titolo di un famoso saggio di Primo Levi (1919-1987) e inquadrandolo in un’ottica universale, i «salvati» di ogni epoca e luogo hanno cercato di custodire e di tramandare con fedeltà la memoria dei «sommersi», di coloro che non erano riusciti a sopravvivere di fronte alle oppressioni della Storia.
L’essere testimone diventa una necessità, un fuoco interiore, che assume un profondo valore morale e civile e una altissima responsabilità verso l’avvenire. Riecheggiano, quasi a far da sintesi ai sentimenti ispiratori di tali guardiani della memoria, le parole pronunciate da Giovanni Ernani, geniale e lunatico protagonista del film Viva la libertà (2013), diretto da Roberto Andò. Egli, in preda a realistica autocritica, si abbandona ad uno sfogo sui temi della verità e della memoria, autodenunciandosi per le mancanze di coraggio del passato e impegnandosi per il futuro in questi termini: «Siamo stati senza una voce chiara. Anche se di tanto in tanto qualcuno pensava a parlare, la gente non sentiva niente. […] Io sono qui per far sì che domani non si dica: i tempi erano oscuri perché loro hanno taciuto».
Il libro di Alberto Cavaglion si schiera senza esitazione dalla parte della memoria, ma «gli allor ne sfronda», leggendo in senso critico i luoghi e gli artefici del ricordo e analizzando categorie desuete o inefficaci e logore modalità attraverso cui si continua a trasmettere ciò che fu alle giovani generazioni.
Tutto parte dall’idea di un paesaggio convalescente su cui gli uomini e la Storia hanno inferto ferite che il buon senso suggerisce di curare ricomponendo le vistose fratture materiali e spirituali che separano popoli, terre e culture.
Per far ciò è doveroso superare l’abusato concetto di «luogo della memoria» per pervenire ad un salutare esercizio di piena consapevolezza dei fatti storici che è destinato a sfociare nella cosiddetta «memoria obliqua».
Tale definizione, coniata dallo studioso francese Philippe Lejeune, indica una memoria coltivata nell’intimo o in piccoli gruppi, pertanto lontana dai raduni di massa e dalle inevitabili retoriche e ipocrisie che ne scaturiscono.
Si tratta dunque di memoria raffinata nel crogiuolo dell’interiorità, non politicizzata secondo le mode del momento, frutto di un certosino lavoro di scavo e dell’instancabile volontà di rintracciare nel paesaggio i segni ‒ spesso dolorosi ‒ della Storia.
Tutto ciò genera discorsi che, come giustamente rilevato dall’autore, «non hanno mai un bell’aspetto, ma nascondono al loro interno il senso dell’autenticità».
Il lettore dal palato raffinato avverte l’eco di un famoso passo del Simposio di Platone in cui Alcibiade dichiara il suo trasporto intellettuale per Socrate paragonandolo alle statuette lignee raffiguranti Sileno che, per quanto esteticamente poco gradevoli e grottesche, una volta aperte, svelano la vera immagine della divinità.
Si ripropone quindi, sul versante della memoria, l’eterno conflitto tra l’intus e l’extra, termini estremi dalla cui riconciliazione può nascere una visione equilibrata degli avvenimenti storici.
Cesare Pavese, in una nota de Il mestiere di vivere datata 24 aprile 1936, evidenziava come «[…] l’unico modo di sfuggire all’abisso è di guardarlo e misurarlo e sondarlo e discendervi». È palese un climax rappresentato dai quattro verbi che conducono, solo in una fase finale, al contatto con ciò che è ignoto. Le azioni del guardare, misurare e sondare precedono la catabasis e condensano quello studio preparatorio per affrontare con consapevolezza la visita presso i luoghi in cui l’umanità ha sperato e sofferto, si è perduta e risollevata, ha toccato il baratro e le stelle.
Una simile impostazione del pensiero stride vistosamente con le attuali consuetudini, dal momento che il contatto con luoghi altamente evocativi quali Ferramonti, Fossoli, Borgo San Dalmazzo o la terrificante Auschwitz si consuma quasi sempre in una sorta di atteggiamento rituale o ‒ nella peggiore delle ipotesi ‒ modaiolo, senza la mediazione dei grandi scrittori e il percorso propedeutico necessario a decontaminare le memorie.
Appare chiaro il bisogno di combattere con vigore alcune nefaste tendenze che inquinano il ricordo e ne inflazionano i paesaggi. È essenziale cancellare la banalizzazione, che sminuisce la gravità degli eventi, la sacralizzazione, che decontestualizza i testimoni rendendoli oggetto di morbosa attenzione e inopportuno culto, e la commercializzazione, che infanga e sfrutta il dolore delle persecuzioni razziali in nome e per conto del più bieco capitalismo.
Cavaglion riprende la singolare classificazione dei paesaggi fatta dal francese Gilles Clément, secondo cui il primo paesaggio è quello incontaminato della natura, il secondo è generato nelle arti figurative e nella letteratura, mentre il terzo si compone degli spazi disabitati o abbandonati dalla presenza umana. A ciò il nostro autore accosta un ipotetico quarto paesaggio che si identifica con i luoghi recanti le ferite della Storia e che, ovviamente, costituisce l’insieme delle memorie da decontaminare.
L’itinerario di bonifica dei paesaggi e delle memorie ha già mosso i primi passi nel contesto altamente simbolico della stazione Transalpina di Gorizia. Essa rappresenta l’emblema di una città umiliata e divisa che, nel 1947, fu smembrata in due da un confine che ne distribuiva i quartieri tra l’Italia e la Jugoslavia. L’intenso lavoro di decontaminazione è sfociato nella decisione di far diventare contemporaneamente Gorizia e Nova Gorica capitali europee della cultura 2025.
Tuttavia, è bene precisare che tale processo di risanamento del paesaggio non è esclusivo dei tempi moderni e Cavaglion riporta in proposito il racconto del tentativo dell’editore di origine ebraica Angelo Fortunato Formiggini (1878-1938) di creare una Casa del ridere, museo irrealizzato che avrebbe dovuto raccogliere le caricature, le musiche e i pezzi satirici composti in trincea dai soldati della Grande Guerra. Tutto ciò non vide la luce e Formiggini stesso pose fine ai suoi giorni lanciandosi dalla modenese torre della Ghirlandina, all’indomani dell’approvazione delle vergognose leggi razziali.
Scomodando Zygmunt Bauman (1925-2017), abitiamo tempi liquidi. Ne consegue l’importanza di cogliere preziosi insegnamenti come quelli contenuti nel volume di Alberto Cavaglion, per donare al passato la sua giusta dimensione e leggerlo in una prospettiva scevra da condizionamenti e intrisa dai principi della “filosofia del ciononostante”, la cui essenza è compendiata nelle parole di Cesare Cases con le quali desidero concludere queste mie brevi considerazioni: «Tutto quanto di valido l’umanità ha prodotto, lo ha prodotto “come un ciononostante”, a dispetto delle avversità, piegando queste alla propria volontà, traendo vigore dal dolore e intelligenza dalla fatica».
Possa il presente richiamo alla fortezza d’animo essere auspicio per il nostro futuro!
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Emanuele Armentano