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Ardian che voleva svuotare il mare

Ardian che voleva svuotare il mare

Mentre, accompagnati dalle spensierate melodie di fatui tormentoni musicali estivi, ci accingiamo ad assaltare con spirito vacanziero gli splendidi e assolati chilometri di costa che circondano il Belpaese, i principali mezzi di informazione continuano ‒ ahimè, stancamente ‒ a raccontare di drammi legati ad immigrazioni che rendono le spiagge italiche agognato punto di arrivo ideale e reale per migliaia di esseri umani il cui bagaglio si riduce ad «una bisaccia vuota e una storia infinitamente piena».

Da buoni cittadini e onesti lavoratori cerchiamo di smorzare temporaneamente il ricordo del grigiore dell’ufficio o della fatica del cantiere lambendo le acque di mari su cui si è consumata la Storia, consapevoli ‒ ma non abbastanza ‒ che, ad alcune miglia dalla battigia, quelle stesse acque diventano spesso un enorme sepolcro liquido che ricopre con inesorabile cinismo le esistenze, i sogni e le speranze di uomini e donne incalzati dai morsi famelici della disperazione e da quelli mortiferi della fame.
Non si tratta di viaggi di eroi ‒ nessun novello Enea conduce a nuovi lidi i sopravvissuti di Troia ‒ né tantomeno di traversate esplorative ‒ l’onnipresente GPS renderebbe inutili persino un Colombo o un Magellano ‒, ma di impari lotte tra la rassegnazione e la speranza, la realtà e l’illusione, la patria e l’ignoto che, di frequente, si concludono nel più tragico dei modi.
Assunta Morrone ha colto nel segno lo spirito che alimenta le tante migrazioni, condensando in una novella semplice e delicata i timori e le difficoltà di una navigazione tanto improvvisata quanto fondamentale per cambiare in positivo le sorti di alcune famiglie albanesi costrette a lasciare la loro terra nel 1991, caotico momento di transizione tra gli strascichi di un vecchio regime e le insicurezze di una nascente democrazia.
Protagonisti del racconto sono due bambini ‒ Ardian ed Erina ‒ che filtrano i tragici momenti e le necessità della partenza attraverso l’incosciente innocenza infantile che traduce quel doloroso distacco dalla madrepatria prima nell’illusorio tentativo di svuotare il mare e poi nel consolante pensiero di ripercorrere le medesime rotte che l’antico eroe nazionale Giorgio Castriota Skanderbeg aveva solcato secoli addietro.
L’approdo in terra italiana risulta poco traumatico per i giovanissimi viaggiatori che, una volta sbarcati, vengono accompagnati nell’accogliente borgo di San Giorgio Albanese in cui il busto bronzeo del condottiero albanese presente sulla piazza principale e le parole pronunciate dagli abitanti in un idioma tutto sommato familiare danno l’impressione di essere ancora tra le vie della natìa Saranda.
L’itinerario descritto si snoda dunque dall’Albania all’Arbëria con le acque dell’Adriatico che separano due lembi di terra legati indissolubilmente da origini, consuetudini e ideali comuni.
Morrone ci porge in dono una vicenda a lieto fine, nella quale l’immancabile alone di tristezza e nostalgia che accompagna ogni migrazione svanisce dinanzi alla luce di un modello di accoglienza e integrazione che i paesi arbëreshë hanno sperimentato e consolidato da lunghissimo tempo.
Tuttavia, sebbene i percorsi migratori abbiano spostato il loro baricentro nel Mediterraneo, ancor oggi torme di disperati «ammonticchiati là come giumenti / sulla gelida prua morsa dai venti, / migrano a terre inospiti e lontane; / laceri e macilenti / varcano i mari per cercar del pane. // Traditi da un mercante menzognero, / vanno, oggetto di scherno allo straniero, / bestie da soma, dispregiati iloti / carne da cimitero / vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti» (Edmondo De Amicis).
Dinanzi a tale tetra prospettiva, il senso di civiltà, la comune appartenenza alla natura umana e le sane convinzioni religiose ci esortano ad acquisire consapevolezza del fenomeno per spianare confini e pregiudizi ed evitare inutili e dolorose stragi.
Sotto gli ombrelloni colorati che ci riparano da sempre più roventi canicole, dinanzi a quello stesso mare che rinfresca le nostre membra e decompone quelle di tanti migranti sfortunati, la lettura dell’agile volumetto di Assunta Morrone ci regala una piccola ma possente lezione di umanità.

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