Sulla terra la vita è presente nelle forme più strane e nei luoghi ritenuti più ostili. Accanto al colibrì esiste il maiale, acanto alla pecora il lupo. E il maschio si riproduce grazie alla femmina e viceversa e l’essere umano si riconosce spesso più che per le capacità intellettive e interiori, per i caratteri somatici.
Un parametro, quest’ultimo, che accomuna e separa gli abili dagli inabili, meglio noti come “diversamente abili” senza specificare in quali settori queste presunte abilità si esplicano a livelli superiori rispetto alla maggior parte degli abili, il che autorizza a credere che si tratti di una malcelata cattiva coscienza che rifiuta la cruda realtà cercando di edulcorarla creando nuovi ghetti di carattere psico – fisico, culturale, etnico, religioso e quant’altro.
Ma nessuno, prima di nascere, ha potuto chiedere se venire a questo mondo e sotto quali spoglie. Soltanto si nasce. Soltanto si muore. Si muore giovani o vecchi, di morte cosiddetta “naturale” o violenta, per mano propria o altrui. È strano: Nessuno chiede di poter nascere, ma nessuno (o quasi) chiede di poter morire; almeno fin tanto che lo stato corporale consente di sopravvivere. Lasciare questo mondo per molti versi, ai più fa paura, dovendo recarsi in una dimensione sconosciuta la cui esistenza è solo ipotizzata (almeno dal punto di vista razionale). Il “Primo Motore Immobile” di aristotelica memoria, qualora dovesse veramente esistere sotto forma di Dio onnipotente, ha tutto predisposto fin nei minimi particolari ma non ha spiegato ad alcuno nemmeno una virgola sull’intero meccanismo. Tutte le forme viventi su questa terra brancolano nel buio stellare di uno spazio galattico indefinito e gli umani, addirittura credendo (illudendosi) di poter avere risposte dagli astri solo accorpandoli in costellazioni che non esistono, pretendendo influenze atte soltanto ad acquietare l’umana paura di essere soli in un universo inspiegabile, impenetrabile e pericoloso, se non addirittura nemico.
Concetti come “eterno”, “infinito”, quantunque percepiti, non possono essere compresi dagli esseri viventi di questa terra, che per loro natura sono di passaggio e quindi provvisori e finiti. Un passaggio, quello dei viventi, solo casuale nello spazio e nel tempo, senza poter capire dove inizia, dove finisce e cosa contiene lo spazio e il tempo.
Si nasce senza volerlo. Si muore senza saperlo. Nessun contatto, nessun incontro fra la vita e la morte, due entità che viaggiano su binari paralleli senza mai potersi scambiare una sia pur minima informazione. Uno status, questo, che permetteva ad Epicuro di infischiarsene della morte semplicemente dicendo: «Fino a quando ci sono io non c’è la morte e quando c’è la morte non ci sono io». La grande e potente umanità che pare abbia come unica capacità quella di distruggere il pianeta che lo ospita pro tempore, e con esso la propria distruzione, deve solo rassegnarsi dando veste reale a creazioni fantastiche, demandando tutti i problemi e tutti i perché all’esistenza, al di fuori dello spazio e del tempo conosciuti, di un “Essere” superiore, perfetto, che tutto ha creato ma che, stranamente, non ha poi avuta tanta voglia di assumersi la responsabilità di tutto quanto, visto che assiste in sordina (almeno così pare), agli eventi, operando di tanto in tanto un qualche “miracolo”, ma senza assumersene chiaramente la paternità.
Un po’ poco per avere creato dal nulla tutto questo ambaradan, forse solo per goderselo in perfetta solitudine. Un “Dio” o più Dei, come una volta la maggior parte degli uomini credeva, (fa lo stesso), che tutto ha prestabilito senza preoccuparsi di chiedere il consenso della controparte (gli esseri viventi dallo stesso Dio creati). Un “Dio” quello ipotizzato dalla mente umana “…che giudica e manda secondo ch’avvinghia…”, che chiede ubbidienza e rispetto delle regole che Egli stesso ha prestabilite. In una parola, un Dio che va pregato, adorato, invocato, senza nulla di concreto pretendere. Una sottomissione cieca che in alcune civiltà (o più semplicemente “collettività”) raggiunge livelli di parossismo tribale che culminano nel suicidio collettivo nella speranza/certezza di veder alfine comparire l’Essere Supremo che tutto ha voluto, previsto, programmato.
A questo punto è da credere che bisogna proprio accontentarsi di quel che diceva Parmenide, filosofo presocratico nativo di Elea nell’attuale provincia di Salerno, che pensò di cavarsela dicendo in maniera abbastanza sibillina che «L’Essere è e non può non essere; il Non-Essere non è ed è necessario che non sia». Il grande Parmenide, essere mortale come tutti i suoi predecessori e discendenti nulla potè dirci di più.
La realtà amara che permane intera oggi come sempre, consiste proprio nella impossibilità di sapere se c’è un post mortem e com’è. Ogni tribù, ogni popolo, ogni “civiltà” si è creato il proprio paradiso nel quale spera e presume che sarà accolto al termine dell’esistenza terrena. Un paradiso licenzioso per alcuni, più morigerato per altri, ma comunque sempre fondato su quella felicità che in vita ci è sempre sfuggita di mano. Ci si accontenta in questo modo, semplicemente, di dare corpo ad una visione fantastica. Non è dato nemmeno sapere se altri esseri viventi che l’homo sapiens ritiene occupino i gradini più bassi della scala evolutiva, hanno le sue stesse capacità intellettive, oppure vivono un eterno presente senza potersi chiedere da dove vengono e dove vanno. Eppure ogni essere vivente, dall’uomo al più indistinto protozoo, rifiuta la morte nel momento in cui capisce (se ancora capisce), che la vita sta abbandonando il suo corpo, inesorabilmente. Certamente perché non è poi tanto sicuro di quel che l’attende. Che sia stato in vita un trascinatore di folle capace di segnare il destino di interi popoli o l’ultimo mendicante sulla faccia della terra, il passaggio impercettibile e indeterminabile dalla vita alla morte, come lo è stato quello originario identificato con la procreazione, ci pone inermi di fronte ad un Dio che ha voluto dirci ben poco, quasi nulla, di tutto ciò che lo riguarda. Di fronte al corpo cadavere che varca la soglia fra l’Essere e il Non Essere, resta lo sbigottimento nel constatare che si tratta ormai soltanto di un corpo in decomposizione, solo banchetto di immondi esseri viventi meravigliosamente capaci di trarre vita dalla morte, prima di trovare essi stessi la morte. Anche la cosiddetta anima di cui l’uomo pare sia dotato non ha alcun peso materiale, lasciando così insoluta la diatriba sulla differenza di peso fra il pesce vivo e il pesce morto.
L’uomo, sin dalla notte dei tempi, come suole dirsi, ha tentato di reagire popolando il nulla di dei e dee a propria immagine e somiglianza. Esseri che non nascono, non muoiono, ma nemmeno si fanno chiaramente individuare per quello che l’essere vivente “uomo” crede che possano rappresentare. L’invenzione della religione, delle religioni, perché tante e diversissime l’uomo ne ha create nella sua mente a propria immagine e somiglianza, non aiuta più di tanto a risolvere il problema semplicemente perché la divinità non ha mai sentito il benché minimo bisogno di mostrarsi al misero mortale che ha piazzato su questa terra abbandonandolo a congetture di ogni genere, tutte verosimili, nessuna accertata e accertabile.
Un Essere supremo onnipotente, onnipresente in tutti i quattro angoli dell’universo che Egli stesso ha creato, secondo quello che l’uomo stesso crede di sapere della sua divinità. Si tratta soltanto di una pia illusione che l’uomo si è data e che serve solo a trovare il coraggio di andare avanti nel quotidiano con gli interrogativi di sempre: Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo.
Ma un Essere superiore che ci ha creato con un atto d’amore per poi abbandonarci, sa di egoismo, disinteresse, forse anche di cinismo, sapendo che in suo nome l’umanità da Lui stesso creata, combatte e muore, scontrandosi a morte con altri uomini che si sono affidati ad altri dei.
Analogamente l’uomo potrebbe sentirsi autorizzato a riservare lo stesso trattamento alla propria prole. Abbandonarla per puro disinteresse, dopo averla creata con un analogo atto d’amore: un macello. Sopravviverebbero solo gli esseri inferiori, i vermi, fintanto che anche questi rimasti senza cibo, farebbero la stessa fine.
E allora perché Dio, qualunque esso sia, permette questo stato di cose? Non sarebbe stato più giusto creare un mondo diverso? Oppure questo universo è solo una prova generale, un tentativo sbagliato di creazione? Ma se Dio non può sbagliare, proprio in quanto è Dio, allora vuol dire, quantomeno, che la accattivante figura del vecchio buon Dio è tutta da rivedere.
Non è dato sapere perché assieme al bene ha creato il male, assieme alla via la morte, assieme alla gioia il dolore. Pare che l’uomo è solo capace di capire una qualità solo se può contrapporla al suo esatto contrario. Ma siamo sempre d’accapo. L’uomo è così perché la divinità creatrice l’ha voluto così, senza sentire la necessità di spigare alcun che a nessuno degli esseri viventi cui diede la vita.
E gli esseri viventi su questa terra e fra questi in primis gli umani che pretendono essere stati creati ad immagine e somiglianza del proprio Dio, a volte, quando la razionalità prende il sopravvento sul fideismo, si abbandonano al più cieco e disumano senso di aggressività contro il proprio simile e contro se stesso. Si ha la morte, il nulla, a cui l’uomo può arrivare grazie alla libertà che la divinità gli ha concesso.
Una libertà assolutamente negativa che non risolve alcun interrogativo. Una libertà che può solo portare alla negazione dell’altro e dell’ignoto universo che ci circonda. E’ una magra consolazione dover ammettere che di fronte ad ogni tentativo di spiegare l’inspiegabile, vi è una sola strada da percorrere: Quella di rassegnarsi a credere in un Dio che si è riservato un ampio spazio di manovra, magari da utilizzare in qualche successiva Creazione. Intanto su questa terra, come in qualsiasi rispettabile condominio a volte ci si ammazza, poi ci si riconcilia. Si torna a convivere con l’ex nemico odiando oggi il bianco, quindi il nero e poi il diverso, uccidendo e rimanendo uccisi, talvolta amando per poi tradire, tal altra usando violenza contro se stessi, o contro i più deboli.
Il tutto nella speranza che il buon Dio che ci ha creati sia talmente buono da perdonare ogni malefatta. Del resto, taluni così credono, tutto ciò che avviene su questa terra è riconducibile alla volontà suprema del Creatore ed è quindi a Lui che è riconducibile ogni responsabilità.
Naturalmente questo scritto è espressione di un razionalità che proprio in quanto tale prescinde dal ricorso alla fede, unico mezzo che ci aiuta a vivere nella speranza (per chi è cattolico, una certezza) di aver invocato la divinità giusta.