Alle ultime politiche dell’aprile 2008, al Viminale sono servite 7 grandi bacheche per inserire i 177 simboli che si sono presentati all’appuntamento elettorale. Un numero di partiti spropositato. Fra questi c’erano 8 simboli con la falce e il martello, cinque fiamme tricolori, tre garofani rossi, due edere verdi, cinque rose bianche, quattro scudi crociati e sei simboli che invocavano di votare per Beppe Grillo. Ma c’erano anche tante altre formazioni pittoresche che testimoniavano il degrado della politica italiana. D’altra parte, se la corsa a fondare un nuovo partito è così frenetica un motivo ci deve pur essere.
Non tutti sanno che, a dispetto della fine prematura della legislatura precedente, i partiti continueranno a riscuotere i rimborsi elettorali per i tre anni che ancora mancavano alla sua fine naturale. A questi si aggiungono i rimborsi derivanti dalla nuova consultazione elettorale. Tutto questo in virtù della legge 51/2006 nella quale è stata introdotta in maniera abbastanza surrettizia una norma che prevede, in caso di elezioni anticipate, il normale prosieguo dei rimborsi elettorali annualmente previsti. Così i partiti, per i prossimi tre anni usufruiranno dei rimborsi per i voti ottenuti nella campagna elettorale del 2006 e per quella del 2008. Un bell’investimento. Non c’è che dire. Si assiste così alla pantomima che tutti i politici, indipendentemente dall’appartenenza, recitano con convinzione: quella di lanciare l’allarme conti pubblici scaricando tutte le responsabilità sui passati governi e preannunciando sacrifici per tentare il risanamento. Intanto vecchi e nuovi partiti nati come funghi incassano i finanziamenti, fra i mugugni degli italiani che devono stringere la cinghia per arrivare a fine mese. Si dirà che accomunando tutti in un unico calderone si fa solo del qualunquismo. In effetti il qualunquismo in politica non è una posizione molto difendibile, ma, obiettivamente, è sempre più difficile trovare un partito che si comporta in maniera tale da allontanare da se ogni ombra di dubbio e l’aumento del fenomeno dell’astensionismo ne è una prova.
Quando il mondo era diviso in due blocchi contrapposti e la pace si reggeva sull’equilibrio del terrore, tutti auspicavano una politica della distensione per la paura che il mondo intero potesse saltare in aria. Ora che le circostanze hanno decretato la fine della contrapposizione ideologica, più di uno rimpiange il tempo in cui la militanza politica era frutto di un’ideale radicato nella propria personalità e non, come sempre più spesso oggi avviene, il frutto di un calcolato tornaconto personale. Del resto succede sempre così e, col senno di poi si sentenzia che “si stava meglio quando si stava peggio”. Ora i partiti come luogo di aggregazione e di formazione della coscienza democratica non esistono più. Gli ideali sono tramontati sotto le macerie del muro di Berlino. La politica si basa sul “do ut des” a tutti i livelli. I giovani si sentono sempre meno motivati a condurre battaglie per conto terzi. Avanzano le alchimie incomprensibili ad opera di una nomenclatura che pur di stare a galla, è disposta a rocamboleschi cambiamenti di casacca, convinta di portarsi dietro il proprio pacchetto di voti.
In tutto questo bailamme avanza da un lato l’astensionismo, espressione visibile del qualunquismo e dall’altro l’estremismo che tende a radicalizzare la lotta politica su posizioni altrettanto sbagliate e nefaste. Il futuro è, come sempre, nelle mani e nelle idee dei giovani capaci di creare una nuova stagione della politica e della democrazia.
Ai vari livelli, partendo dall’ambito locale, è sulle capacità giovanili che la politica dovrà puntare per salvare se stessa e la società civile abbarbicata alla poltrona di un potere sempre più cieco che pretende di perpetuarsi senza fine. Non sarà certo una passeggiata aperta a chiunque voglia improvvisarsi novello Catone. Anche chi ha le migliori carte, le più brillanti idee e la più ferrea volontà di voler servire la società nel suo complesso, dovrà resistere alle scorciatoie che i più navigati gli prospetteranno su un piatto gia pronto. Fare dell’impegno politico un sorta di mestiere è il peggior servizio che si possa rendere alla società. D’altronde non si raggiungeranno mai risultati eccelsi, ma nemmeno traguardi apprezzabili, senza la sufficiente padronanza di una materia sfuggente come la politica che sin dai tempi di Machiavelli dibatte il tema attualissimo del primato fra morale e politica. L’identikit del Principe tracciato da Machiavelli, per quanto non attuale per la forma di governo, oggi appannaggio del sistema democratico fondato sul consenso degli amministrati, resta pur sempre esemplare nel concetto di separazione fra morale e politica e nelle qualità indispensabili del politico fra cui spiccano la crudeltà e l’astuzia. Il Machiavelli parte dalla convinzione che l’agire politico si basa sul coraggio di guardare in faccia la realtà che è sempre negativa. Da questo pessimismo nasce la necessità di uno Stato forte e accentrato, capace di superare il limite dell'individualismo. In questo senso non devono apparire strani i consigli "crudeli" che Machiavelli dà al suo Principe, perché è solo operando contro chiunque lo minacci che il principe salverà il bene supremo lo Stato.
Naturalmente la politica odierna muove da ben altri presupposti, ma la discrasia fra morale e politica permane intatta. Basta guardarsi un poco intorno.

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