Dopo oltre sessant’anni “di onorato servizio” sarà pur vero che la nostra carta costituzionale presenti qua e là, se non proprio la necessità, quanto meno l’opportunità di qualche operazione di restyling. Si tratterebbe di ritocchi, revisioni, aggiornamenti che non ne stravolgano l’impianto complessivo, un autentico gioco di equilibri fra poteri dello Stato tali da garantire a tutte le componenti e le espressioni politiche, uguali parità, uguali dignità, uguali opportunità.
Se poi pensiamo che alla sua stesura hanno posto mano gli uomini più rappresentativi sopravvissuti al ventennio totalitario, fra i quali eccelsero (ne citiamo uno per tutti), personaggi come Costantino Mortati, costituzionalista di etnia arbëreshe di chiarissima fama, si può stare più che tranquilli sul grado di democrazia racchiuso in quegli ottantadue articoli.
Il dibattito politico emerso in questi ultimi tempi, si è focalizzato, oltre che sulla riforma del processo penale, di cui avremo tempo di discuterne, sull’articolo 67 della Costituzione, il cui contenuto ha attirato l’attenzione dei revisionisti. Esso recita: ”Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni “senza vincolo di mandato”. In merito al significato di queste tre parole ci viene in soccorso “la Rete” da cui estrapoliamo il significato: “Agli albori della democrazia il Parlamento non si riuniva in permanenza. Questo significa che si eleggevano i deputati, questi si riunivano nella capitale per qualche settimana per votare sulle questioni più importanti (...omissis...) e poi decadevano ed il Parlamento cessava di esistere fino a quando il Re non ne convocava un altro (potevano passare anche parecchi anni).
In queste assemblee primordiali i deputati erano eletti da una determinata classe sociale o da una determinata comunità e si recavano al Parlamento con il compito di rappresentare le idee delle persone che li avevano eletti. Essi, dunque, non erano autonomi e potevano essere chiamati dai loro elettori a rispondere (anche sotto pesanti sanzioni) su come avevano votato in Parlamento. I Parlamenti così composti erano abbastanza inconcludenti in quanto i loro membri non avevano abbastanza autonomia per fare degli accordi basati su compromessi che conciliassero in parte le posizioni della maggioranza di essi. Inutile dire che questo generava sfiducia nei confronti delle istituzioni parlamentari e quindi favorisse l'assolutismo del monarca. La regola secondo la quale i deputati rappresentano l'intera nazione (e non solo coloro che li hanno eletti) e che devono essere assolutamente liberi (cioè senza vincolo al loro mandato parlamentare) di votare come ritengono più opportuno (indipendentemente da quello che hanno promesso agli elettori) fu una grande conquista di civiltà, poiché i Parlamenti divennero molto più produttivi e si rafforzò l'unità dei deputati (liberi di appoggiarsi reciprocamente) davanti al sovrano. Inutile dire che da allora molti deputati usarono tale conquista anche per meno nobili scopi”.
Tale status di mandato imperativo venne poi abolito dalla costituzione francese del 1791 che sancì il principio della responsabilità dell’eletto non più di fronte ai propri elettori, ma di fronte agli interessi della Nazione intera, norma poi recepita da tutte le costituzioni fra cui lo Statuto Albertino e da qui passata alla Costituzione della nostra Repubblica. Secondo tale norma l’eletto non ha alcun impegno vincolante nei confronti dei propri elettori ai quali resta come unica arma, in caso di ricandidatura, la bocciatura delle urne.
Fra eletto ed elettore si instaura una semplice responsabilità politica priva di qualsiasi valore giuridico, frutto di un rapporto fiduciario ormai allargato ai rapporti fra eletto e partito che lo ha presentato e lo ha sponsorizzato in fase elettorale.
Ben vengano allora i cambi di casacca? Certamente no se non sono quanto meno frutto di una condivisibile linea politica che l’eletto dovrebbe quanto meno spiegare e giustificare al proprio elettorato e, per esso, al proprio partito o movimento sotto le cui insegne si riconosceva all’atto della richiesta di voto. Ne va di mezzo la serietà del sistema facilmente riscontrabile nella disaffezione verso le urne che ad ogni appuntamento elettorale registra cali a dir poco preoccupanti che inficiano il valore del consenso ottenuto con percentuali risibili se rapportate al numero degli elettori iscritti.
E’ pur vero che al tempo in cui il pianeta era diviso in blocchi contrapposti, il valore dato alla propria ideologia era di per se un collante più che sufficiente a far passare in secondo ordine le eventuali disparità di vedute su singoli problemi. Era certo un male, così come oggi lo è il continuo via vai di personaggi capaci di restare a galla semplicemente fiutando l’aria che tira.
Sono personaggi, costoro, che ritengono di essere portatori del pacchetto di voti precedentemente ottenuti per barattare posizioni di potere, manovre che alla lunga si riveleranno deleterie per l’esercizio democratico, inculcando nelle masse il concetto errato della politica come mestiere, per di più riservato ai più furbi e spregiudicati.
Se poi pensiamo che alla sua stesura hanno posto mano gli uomini più rappresentativi sopravvissuti al ventennio totalitario, fra i quali eccelsero (ne citiamo uno per tutti), personaggi come Costantino Mortati, costituzionalista di etnia arbëreshe di chiarissima fama, si può stare più che tranquilli sul grado di democrazia racchiuso in quegli ottantadue articoli.
Il dibattito politico emerso in questi ultimi tempi, si è focalizzato, oltre che sulla riforma del processo penale, di cui avremo tempo di discuterne, sull’articolo 67 della Costituzione, il cui contenuto ha attirato l’attenzione dei revisionisti. Esso recita: ”Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni “senza vincolo di mandato”. In merito al significato di queste tre parole ci viene in soccorso “la Rete” da cui estrapoliamo il significato: “Agli albori della democrazia il Parlamento non si riuniva in permanenza. Questo significa che si eleggevano i deputati, questi si riunivano nella capitale per qualche settimana per votare sulle questioni più importanti (...omissis...) e poi decadevano ed il Parlamento cessava di esistere fino a quando il Re non ne convocava un altro (potevano passare anche parecchi anni).
In queste assemblee primordiali i deputati erano eletti da una determinata classe sociale o da una determinata comunità e si recavano al Parlamento con il compito di rappresentare le idee delle persone che li avevano eletti. Essi, dunque, non erano autonomi e potevano essere chiamati dai loro elettori a rispondere (anche sotto pesanti sanzioni) su come avevano votato in Parlamento. I Parlamenti così composti erano abbastanza inconcludenti in quanto i loro membri non avevano abbastanza autonomia per fare degli accordi basati su compromessi che conciliassero in parte le posizioni della maggioranza di essi. Inutile dire che questo generava sfiducia nei confronti delle istituzioni parlamentari e quindi favorisse l'assolutismo del monarca. La regola secondo la quale i deputati rappresentano l'intera nazione (e non solo coloro che li hanno eletti) e che devono essere assolutamente liberi (cioè senza vincolo al loro mandato parlamentare) di votare come ritengono più opportuno (indipendentemente da quello che hanno promesso agli elettori) fu una grande conquista di civiltà, poiché i Parlamenti divennero molto più produttivi e si rafforzò l'unità dei deputati (liberi di appoggiarsi reciprocamente) davanti al sovrano. Inutile dire che da allora molti deputati usarono tale conquista anche per meno nobili scopi”.
Tale status di mandato imperativo venne poi abolito dalla costituzione francese del 1791 che sancì il principio della responsabilità dell’eletto non più di fronte ai propri elettori, ma di fronte agli interessi della Nazione intera, norma poi recepita da tutte le costituzioni fra cui lo Statuto Albertino e da qui passata alla Costituzione della nostra Repubblica. Secondo tale norma l’eletto non ha alcun impegno vincolante nei confronti dei propri elettori ai quali resta come unica arma, in caso di ricandidatura, la bocciatura delle urne.
Fra eletto ed elettore si instaura una semplice responsabilità politica priva di qualsiasi valore giuridico, frutto di un rapporto fiduciario ormai allargato ai rapporti fra eletto e partito che lo ha presentato e lo ha sponsorizzato in fase elettorale.
Ben vengano allora i cambi di casacca? Certamente no se non sono quanto meno frutto di una condivisibile linea politica che l’eletto dovrebbe quanto meno spiegare e giustificare al proprio elettorato e, per esso, al proprio partito o movimento sotto le cui insegne si riconosceva all’atto della richiesta di voto. Ne va di mezzo la serietà del sistema facilmente riscontrabile nella disaffezione verso le urne che ad ogni appuntamento elettorale registra cali a dir poco preoccupanti che inficiano il valore del consenso ottenuto con percentuali risibili se rapportate al numero degli elettori iscritti.
E’ pur vero che al tempo in cui il pianeta era diviso in blocchi contrapposti, il valore dato alla propria ideologia era di per se un collante più che sufficiente a far passare in secondo ordine le eventuali disparità di vedute su singoli problemi. Era certo un male, così come oggi lo è il continuo via vai di personaggi capaci di restare a galla semplicemente fiutando l’aria che tira.
Sono personaggi, costoro, che ritengono di essere portatori del pacchetto di voti precedentemente ottenuti per barattare posizioni di potere, manovre che alla lunga si riveleranno deleterie per l’esercizio democratico, inculcando nelle masse il concetto errato della politica come mestiere, per di più riservato ai più furbi e spregiudicati.