C’è qualcosa di inquietante nel modo in cui oggi si parla di Chiesa, dottrina e fede. La recente intervista fatta a Mons. Francesco Savino, vescovo di Cassano allo Ionio, sui temi attinenti il mondo LGBTQ+ ha scatenato un’ondata di reazioni che ha poco di teologico e molto di emotivo.
Basta scorrere i commenti per capire che la discussione non verte più sulla parola del Vangelo, ma sull’orgoglio ferito di chi pretende di essere più “custode” della Chiesa che la Chiesa stessa.
È un fenomeno ormai frequente: laici senza formazione teologica, senza conoscenza storica del Magistero o esperienza pastorale, si arrogano il diritto di correggere pubblicamente un vescovo, accusandolo di eresia, di tradimento, persino di essere “strumento di Satana”. Un linguaggio violento, da inquisizione digitale, che rivela quanto fragile sia oggi il confine tra fede e presunzione. Ci si proclama difensori della “vera dottrina”, ma si finisce col trasformare il Vangelo in un’arma di esclusione.
Com’è potuto accadere che, in un’epoca di accesso illimitato all’informazione, la libertà di parola sia diventata il pretesto per annullare la libertà di pensiero? Forse il problema non è solo religioso, ma antropologico. La fede, come la politica e la scienza, è entrata nel tritacarne della polarizzazione: non importa capire, basta schierarsi. Non importa leggere, basta sentenziare. In questo clima, la parola “accoglienza” suona come resa, “discernimento” come compromesso, “dialogo” come tradimento.
Ma la Chiesa, volenti o nolenti, non è un tribunale domestico dove ciascuno può interpretare la legge divina a proprio uso e consumo. È una comunità che cammina nella complessità, tra luci e ombre, guidata da chi ha ricevuto un mandato di servizio e non di potere. Pretendere di sostituirsi a quella guida, con l’arroganza di chi cita il Catechismo come un’arma e non come una scuola di vita, significa smarrire il senso stesso dell’obbedienza evangelica. Non quella cieca, ma quella che nasce dall’umiltà di sapere che nessuno possiede la verità intera.
E c’è un’altra analogia, amara ma istruttiva. Qualche giorno fa, i giornali raccontavano la polemica sul Premio Nobel per la Pace e sull’insistenza di Donald Trump, che da mesi rivendica per sé il riconoscimento per il suo piano di pacificazione in Medio Oriente. Anche qui, lo schema è lo stesso: l’io che reclama il sigillo dell’autorità, l’individuo che pretende di essere la misura di tutto. Che sia fede o diplomazia, la logica non cambia: l’ego al posto dell’istituzione, la convinzione personale al posto della competenza, l’urlo al posto del silenzio.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un mondo di credenti che non ascolta più, che non cerca più, che non si fida più. Si scaglia contro il Papa, contro i vescovi, contro chiunque osi spostare di un millimetro la propria certezza. Eppure, chi ama davvero la Chiesa non la difende dal basso di una tastiera, ma la costruisce nel quotidiano: nell’ascolto, nella misericordia, nella fatica di capire anche ciò che non condivide.
Non si tratta di essere progressisti o conservatori, ma di ritrovare il senso di una misura perduta. La fede, senza intelligenza, diventa ideologia; la dottrina, senza carità, diventa muro; la verità, senza umiltà, diventa menzogna.
Per questo l’unico scandalo vero, oggi, non è un vescovo che apre un dialogo, ma un popolo che ha smesso di credere nel dialogo stesso. E allora sì, forse l’abominio della desolazione non è Satana travestito da prelato, ma l’incapacità di riconoscere Dio nel volto dell’altro, anche quando quell’altro non ci somiglia.
Il cristianesimo non è un campo di battaglia, è una scuola di libertà. Ma richiede disarmo. Anche (e soprattutto) da parte di chi crede di avere sempre ragione.
E allora pongo queste domande:
Com’è possibile che, nel dibattito ecclesiale contemporaneo, siano proprio molti laici -spesso privi di formazione teologica, di conoscenza storica del Magistero e di esperienza pastorale- a rivendicare il ruolo di custodi della “vera” dottrina, arrivando a correggere o condannare pubblicamente vescovi e teologi?
Questo stato di cose, non rivela forse una distorsione profonda del rapporto tra fede e autorità, dove l’opinione personale pretende di prevalere sul discernimento ecclesiale e sulla competenza teologica?
E non è forse paradossale che a difendere la Chiesa dall’interno siano, oggi, proprio coloro che la criticano dall’esterno, sostituendosi a essa nel nome di un rigore che spesso tradisce lo spirito stesso del Vangelo?
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