Navanteri

Anno di grazia 1893. Ad Abinei, piccolo paese dell’entroterra della Sardegna orientale ‒ la cui esistenza è frutto della fantasia narrativa di Giorgio Todde (1951-2020) ‒, la natura, che notoriamente ha i suoi equilibri, sembra farsi beffe della razionalità e delle leggi statistiche, dal momento che vita e morte si equiparano quasi prodigiosamente, trovando una perfetta proporzione nel numero 808. Tale è la cifra costante degli abitanti e il segno di un immobilismo che si protrae da tempo con implacabile puntualità.

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La stasi generalizzata investe, in maniera angosciosa, persino il paesaggio e il regno animale e l’autore ce ne rende partecipi in un incipit che permette di assaporare quel clima di anomala conservazione di cui saranno impregnate le pagine successive: «Ad Abinei le case di pietra sono sempre le stesse perché nulla si moltiplica o diminuisce nel paese fossile. Lo stato delle anime della comunità colpisce per il fatto che i morti sono compensati con esattezza dai nati e per questo motivo le case sono le stesse e invariato il numero dei fuochi. Anche gli animali, come gli uomini, nascono e muoiono in misura uguale. Si entra tra le anime del paese attraverso una membrana, come sempre, e se ne esce all’estremità opposta, uomini e animali, attraverso una membrana aritmetica che si richiude subito dietro chi l’ha passata».
Custodi della misteriosa e inquietante stabilità sono quelle figure che in un borgo ottocentesco rappresentano un indiscusso punto di riferimento per una popolazione di gente semplice ‒ «[…] sanno leggere e fare di conto in quindici. Un laureato in tutto il paese» ‒, sfiancata dal duro lavoro e offuscata da superstizioni ataviche: il parroco don Giacomo Càvili, che accompagna le anime nell’inevitabile transito verso l’aldilà, la levatrice Antonia Ozana, che le aiuta a venire al mondo, e il medico Pierluigi Dehonis, che cura i corpi di pazienti ben temprati dalla fatica e non si esime dal compiere occasionalmente un atto di pietà, accorciando atroci sofferenze non reversibili con i ritrovati scientifici dell’epoca.
Tuttavia, il Caso ‒ oscuro alleato della diabolica mano dell’Uomo ‒ interviene per distruggere le assestate armonie di Abinei. Improvvisamente, il collaudato sistema sociale collassa con l’omicidio della ricca vedova Milena Arras e l’inaspettata nascita di due gemelli partoriti da Piccosa Spìtzulu.
Il cerchio si spezza e il Caos pare riprendere la primogenitura a discapito del suo antitetico e ordinato fratello Cosmo. Occorre necessariamente fare chiarezza sul movente di un delitto perpetrato con modalità di sopraffina arte criminale, impensabile tanto per le menti degli umili contadini e pastori del luogo quanto per quelle dei rozzi e violenti banditi ‒ dalle prassi primitive e sbrigative ‒ che infestano le montagne e i boschi circostanti.
Ad un ingegno raffinato, ma votato al male, se ne oppone ben presto un altro, non meno perspicace, appositamente ingaggiato per portar luce nella enigmatica faccenda: quello di Efisio Marini (1835-1900), amico di lunga data del medico condotto Dehonis e personaggio realmente esistito, noto alla comunità scientifica per brillanti studi di fisiologia e per l’invenzione di un segreto e innovativo metodo ‒ tra l’altro reversibile ‒ di pietrificazione dei cadaveri.
Marini affianca nelle indagini il giovane capitano dei Reali Carabinieri Giulio Pescetto, ponendosi alla ricerca della verità per mezzo della minuziosa osservazione dei corpi ‒ che darà luogo ad una indiretta polemica contro le strampalate e pericolose teorie lombrosiane del sociologo positivista Alfredo Niceforo (1876-1960), più volte citato nel testo ‒ e di una ferrea consapevolezza riassunta in una noterella scribacchiata distrattamente di suo pugno in attesa della cena: «Signa et res… tutto il mondo è fatto di simboli e cose».
L’acume del medico-investigatore è messo a dura prova da altre due morti inattese che sbilanciano definitivamente lo stato delle anime della comunità, riconducendo ad un normale squilibrio matematico l’innaturale omeostasi sociale tra vivi e defunti.
Soltanto dopo una lunga riflessione e una essenziale liberazione da alcuni preconcetti inculcati sin dalla giovinezza, Marini riuscirà a ricostruire la fitta trama di avvenimenti alla base dei delitti, facendo emergere le motivazioni luciferine che hanno insanguinato le mani di un insospettabile burattinaio responsabile della macabra contabilità dei residenti di Abinei.
Il romanzo di Todde parrebbe a prima vista un noir leggero e gradevole, ma la scrittura semplice e alcune peculiarità psicologiche dei personaggi rendono Lo stato delle anime un libro ben più complesso, adatto ad un’attenta riflessione sui tipi umani e sull’importanza di affrancarsi da ogni pregiudizio per avere una visione serena dei fatti, degli uomini e della realtà.
Efisio Marini assume i tratti di uno Sherlock Holmes dall’egocentrismo moltiplicato. Ciononostante, l’inappagabile sete di conoscenza che lo connota ‒ «È tutto nei libri, c’è tutto di sicuro» ‒ e la passione pressappoco infantile che lo lega al corpo da lui stesso mummificato di una delle vittime ‒ sentimento dettato dal desiderio di giustizia e non certo da stramba patologia ‒ ne fanno un personaggio apprezzabile e degno di simpatia a cui si riconosce altresì il coraggio di duellare con la morte, non certo sconfiggendola ‒ amara e irrealizzabile aspirazione ‒, ma rallentandone il potere corruttore esercitato sulla materia.
Insomma, Giorgio Todde ci regala un’affascinante avventura che abbraccia i temi esistenziali con un approccio non filosofico, mescolandoli alla degenerazione delle affezioni umane, alla manifestazione degli istinti primordiali e alla funzione salvifica della scienza e della cultura. Le sue pagine sono un avamposto di resistenza contro il buio, l’ignoranza, la rassegnazione e le cattive intenzioni di ogni giorno e di ogni epoca. Basta ciò a renderle necessarie.

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