Il caso del Ceo di Astronomer Andy Byron e della sua responsabile delle risorse umane Kristin Cabot, al concerto dei Coldplay a Boston, è rimbalzato su tutte le cronache del mondo. Eppure, i due non erano personaggi famosi o degni di un'attenzione planetaria che, in pochissimo tempo, è esplosa riempendo le pagine dei notiziari della Terra.
Un fenomeno, questo, che ha dell'incredibile a patto che, è bene sottolinearlo, non si consideri la capacità degli essere umani di sentirsi “al di sopra delle parti” sempre e comunque.
Durante il concerto, dunque, vengono ripresi dalla kiss cam e proiettati nei maxischermi. Lei si copre il volto. Lui si abbassa dietro le transenne. Un attimo impacciato, forse colpevole, forse no. A commentare l’accaduto dal palco, prima intenerito poi dubbioso, è lo stesso Chris Martin, frontman dei Coldplay: «Guardate questi due…» e quando è ormai scoppiato il panico, aggiunge: «O hanno una relazione nascosta o sono molto timidi». Un momento che, in un mondo normale, sarebbe svanito tra le risate del pubblico e le note di una canzone.
Invece, quel video finisce online. Milioni di visualizzazioni, commenti, giudizi. Poi l’identificazione: Andy Byron e Kristin Cabot, colleghi. Non personaggi pubblici. Due esseri umani che, forse, si sono scambiati un gesto sbagliato nel posto sbagliato.
Il web ha deciso: erano “amanti”. E per questo, degni della piazza. Della condanna.
Byron si dimette. Cabot viene sospesa. Le loro vite private, le famiglie, i figli, i colleghi: tutto esposto. Perché?
Perché il mondo ha smesso di distinguere tra diritto e vendetta, tra informazione e curiosità, tra giustizia e linciaggio. Perché nella società dei social, la morale è diventata un’arma e l’empatia un segno di debolezza.
“Se stavano facendo qualcosa di sbagliato, se la sono cercata”. Questa l'opinione pubblica. Come se la condanna morale avesse un potere superiore al diritto di libertà dell'individuo. Cioè, per la gente, i due “stavano facendo qualcosa di sbagliato, stavano tradendo la moglie e il marito, colpa loro! Se lo meritano!”. E tutto è nato da un momento di imbarazzo evidente, altrimenti, se non si fossero “nascosti”, tutto sarebbe passato nell'indifferenza totale. Il vero problema, però, è che qui non si tratta di una questione morale ma di una questione di privacy. E la violazione della privacy rimane tale anche quando i diretti interessati stanno facendo qualcosa di “sbagliato”, qualunque cosa questo significhi. Sia chiaro, la proiezione delle immagini, in un evento come quello del concerto, resta possibile a patto che annunciato agli spettatori e resti all'interno dell'evento.
Il problema, però, si pone nel momento in cui queste immagini vengono diffuse fuori dall'evento. Non esiste, infatti, alcun diritto che legittimi la diffusione di volti, nomi di persone comuni solo perché si presume abbiano commesso qualcosa di “moralmente discutibile”. Non è giornalismo. Non è giustizia. È sadismo da tastiera. È doxing. È violenza.
La privacy non è una ricompensa per chi si comporta bene. È un diritto inalienabile, proprio perché siamo imperfetti.
Siamo diventati giudici e boia, con un dito che clicca “condividi” come se fosse un grilletto. Non per denunciare crimini, ma per saziare il bisogno di sentirsi migliori, moralmente superiori, almeno per un secondo. È la logica del branco. È la stessa che accendeva le torce nei linciaggi, che applaudiva nelle piazze ai roghi, che tirava pietre dai balconi. La stessa che faceva gridare “Barabba”! Oggi questo lo si fa con uno smartphone.
Umberto Eco lo aveva previsto: “I social hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli”. Ma la realtà è peggiore. Gli imbecilli, oggi, hanno anche l’arroganza di sentirsi giusti.
E allora poniamoci una domanda: quale civiltà siamo, se non sappiamo proteggere il confine tra morale e barbarie?
Non ci stiamo difendendo dalla disinformazione: stiamo alimentando un'epidemia di cinismo.
In nome di cosa? Di una vendetta morale che non ci è mai stata chiesta? Di un’esibizione di indignazione che non cambia nulla, se non distruggere chi finisce nel mirino?
No, non abbiamo il diritto di trasformare il disagio altrui in contenuto. Non abbiamo il diritto di sostituirci alla vergogna altrui per appagare la nostra voglia di sentirci giusti.
Abbiamo bisogno di una cultura della responsabilità, non della vendetta.
Perché oggi è Andy e Kristin. Domani potresti essere tu a dover passare dal concerto allo sconcerto!