Rari sono gli incendi a dicembre ma, forse anche per questo, più sensazionali, capaci di far brillare ‒ in una sorta di contrasto sicuramente non privo di poesia ‒ la propria luce sulla monotonia algida del paesaggio innevato o tra le brume ingannatrici che si levano dal suolo per schermare un orizzonte che l’inverno ‒ quasi per definizione ‒ rende sempre più misterioso.
Tuttavia, per quella salvifica e dannata ambiguità delle cose, ogni combustione può distruggere o creare e le fiamme emozionali che divampano nelle anime di Margherita e Marcello, protagonisti del nuovo romanzo di Matteo Bussola, sono destinate a scaldare un incontro fortuito tra esseri umani in cerca di possibilità e in fuga da storie personali strette e sgradite, non previste e non augurabili.
Mancano solo quattro giorni al Natale e su un treno diretto verso una quiete che entrambi agognano, il caso ‒ che lo scrittore rende manifesto attraverso il consunto escamotage dell’errore nell’assegnazione dei posti di viaggio ‒ permette quel breve scambio di battute ‒ inizialmente di circostanza e poi di sempre maggior confidenza ‒ che si trasformerà, ben presto, nel confronto tra due esperienze esistenziali opposte il cui denominatore comune è la «feroce nostalgia per una vita che non c’era mai stata».
Margherita si allontana da un marito distante e dalle problematiche di un figlio adolescente, cercando di mettere in pausa, almeno per qualche giorno, la «lenta deriva» di una quotidianità che, sin da giovane, aveva sperato e sognato differente.
Marcello rientra in famiglia per riabbracciare la sua piccola Matilde, dopo aver perso una consorte fedifraga alla quale, nonostante tutto, è stato accanto durante l’inaspettata e dolorosa malattia che l’ha condotta alla tomba.
Le parole che si mescolano al lento incedere della locomotiva fondono pertanto «le macerie della vita passata di lui e i frammenti di quella presente di lei», fornendo ad ambedue una nuova consapevolezza sul futuro e su «quel supplemento di vita cui sentivano di avere diritto».
La fede nelle statistiche di Margherita ‒ revisore contabile per professione ‒ e l’amore per le storie di Marcello ‒ giornalista scrupoloso e sensibile ‒ faticano a trovare una sintesi, dal momento che la realtà è sempre migliore di come la si teme e peggiore di come la si desidera, ma ogni storia che si rispetti ha un lieto fine che, paradossalmente, nel romanzo di Bussola consiste nel non averne uno.
La narrazione rimane sospesa, potenziale, esattamente come quel sentimento che, nuovo e spiazzante, attanaglia e vince le fragilità della coppia di protagonisti verso cui chi legge non può che provare umana compartecipazione mista alla tenerezza di chi rivede nell’altro gli effetti delle difficoltà di una situazione scampata per sé.
Con lo scorrere delle pagine ci si aspetta una soluzione in grado di far superare l’impasse di un appuntamento del destino che diviene confessione, ma non trova il coraggio di tramutarsi in altro o la forza di ammettere col necessario cinismo che «per costruire qualcosa devi uccidere o distruggere quel che c’era prima». Tale aspettativa non viene soddisfatta e il lettore, terminato l’ultimo capitolo, si accorge di avere tra le mani un romanzo che non delude, ma non esalta, un testo che diletta ma poco insegna. Purtuttavia, Bussola mostra con chiarezza di avere l’indiscutibile pregio di far luce su una familiarità che, spesso, degenera in banalità e si alimenta di inerzia per affrontare lo scorrere dei giorni.
«Si sentivano come due che avevano visto in faccia una felicità, ma poi se l’erano cavata per un soffio, quanto basta per non farsene uccidere, un attimo prima di crederle davvero». Margherita e Marcello hanno paura ma, a ben vedere, i libri insegnano a non averne. Basta questo a rendere prezioso il racconto della loro vicenda e ad innescare un luminoso incendio dicembrino dinanzi al quale arretra il grigiore di giorni afflitti da incombenze e futilità.
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