Ogni inverno la bronchiolite torna a far tremare i genitori dei bambini più piccoli. Basta un respiro affannoso o una poppata che improvvisamente diventa faticosa per far scattare quell’ansia che solo chi ha un neonato conosce davvero.
La scena è sempre la stessa: il bimbo che respira più in fretta, il petto che si muove in modo strano, il nasino che non smette di colare. E la domanda che rimbalza in testa è una sola: “È solo un raffreddore o c’è qualcosa di più?”.
La risposta, spesso, è che la bronchiolite non è un banale raffreddore. È un’infezione che colpisce i bronchioli, i canali più piccoli dei polmoni, e mette in difficoltà soprattutto i neonati e i bimbi sotto i sei-otto mesi, anche se può comparire fino ai ventiquattro mesi. La causa, nella maggior parte dei casi, è il Virus Respiratorio Sinciziale, un ospite indesiderato che in inverno riempie gli ambulatori pediatrici e i reparti ospedalieri, perché è proprio questa la malattia che più di tutte porta i lattanti in ospedale durante i mesi freddi.
La bronchiolite non arriva mai come un fulmine a ciel sereno: all’inizio assomiglia davvero a un raffreddore. Qualche giorno di naso che cola, un po’ di tosse, a volte un po’ di febbre. È quando l’infezione raggiunge l’apice che la situazione cambia. Il respiro diventa più veloce, più impegnativo; ad ogni atto respiratorio si nota la pelle che rientra tra le coste o alla base del collo, segno che il bambino sta usando i muscoli respiratori “accessori” per riuscire a respirare. A volte si sentono sibili, fischi o rumori “umidi” provenire dal torace. Il piccolo si stanca, mangia meno, e basta qualche poppata saltata perché inizi a disidratarsi. Nei neonati di pochi mesi, il campanello d’allarme può essere ancora più subdolo: una breve pausa del respiro, un’apnea che arriva senza avvertire.
In questi momenti i genitori osservano ogni minimo dettaglio, ma la diagnosi non si fa con esami o radiografie: la fa il pediatra, ascoltando il torace e la storia raccontata dalla famiglia. Gli esami del sangue e le radiografie non servono quasi mai, così come gli antibiotici e altri farmaci spesso chiesti “per sicurezza”. La bronchiolite è quasi sempre virale, e la cura non sta in pillole o sciroppi: sta nel supporto.
Ci sono però segnali che non devono far esitare nessuno. Un respiro troppo rapido, rientramenti molto marcati, difficoltà a nutrirsi, scarsa produzione di pipì, un bambino che appare pallido, poco reattivo o insolitamente sonnolento: sono tutte situazioni in cui è bene farsi vedere subito in pronto soccorso. E se il piccolo è prematuro, ha meno di dodici settimane o presenta problemi cardiaci o polmonari, la soglia di attenzione deve essere ancora più alta.
Anche quando la fase acuta passa, la storia non sempre finisce lì. Alcuni bambini, soprattutto quelli che hanno avuto una forma più severa, continuano per mesi -a volte anni- ad avere episodi di respiro sibilante. In alcuni casi questa predisposizione può tradursi più avanti in una vera e propria diagnosi di asma.
La terapia, come detto, è quasi tutta di supporto: ossigeno quando serve e idratazione se il bambino non riesce a mangiare da solo. In ospedale, nei casi più seri, si usa l’ossigeno ad alto flusso, mentre i liquidi possono essere somministrati attraverso un sondino nel naso o direttamente in vena. A casa, invece, la vera arma dei genitori è molto più semplice di quanto si pensi: lavare spesso il naso con soluzione fisiologica. Non c’è una quantità prefissata, né orari rigidi: ogni volta che il bimbo è pieno di secrezioni, un lavaggio lo aiuta a respirare e -cosa ancora più importante- a mangiare.
La prevenzione resta però la miglior difesa. Mani pulite, ambienti non affollati, niente baci e coccole da parenti raffreddati: sono accortezze semplici ma fondamentali. Dal 2024 c’è anche un alleato in più: il Nirsevimab, un anticorpo monoclonale approvato in Italia per ridurre il rischio di forme gravi nei bambini più piccoli. Se non ve ne hanno parlato alla dimissione dal punto nascita, vale la pena chiedere al pediatra.
La bronchiolite spaventa, e fa bene a farlo, ma conoscere i segnali e sapere cosa aspettarsi aiuta a non farsi travolgere dalla paura. E quando c’è un dubbio, vale sempre la stessa regola: meglio una telefonata in più al pediatra che un rischio non visto.
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