Ho visitato due volte, nella mia vita, l'area del Memoriale dell'11 settembre, nota anche come “Ground Zero” (livello zero), nel quartiere Lower Manhattan di New York. La prima era nel mese di giugno del 2014, la seconda nel mese di novembre del 2024.
A distanza di dieci lunghi anni, le sensazioni e le emozioni sono state le stesse: il rumore del silenzio e del vuoto che ti fa vibrare le corde dell'anima. Non voglio parlare di quell'11 settembre 2001, di cui è stato detto ogni cosa. Di quel giorno ricordo lo sgomento collettivo nel vedere quelle immagini che trasformavano la televisione in cinema da film horror. In America il primo attentato è avvenuto alle 8.46 del mattino, qui in Italia erano le 14.46. Il tempo di diffondere la notizia e la prima torre fumante era in diretta mondiale, giusto in tempo per far assistere agli occhi del pianeta il secondo schianto dell'United Airlines 175 alle 9.03 ora locale (15.03 ora italiana).
Di quella tragedia custodiamo il dolore che ha visto perire quasi 3000 persone, senza mai restituire la vera logica di quello che sarebbe dovuto diventare il senso di questo atroce gesto.
Ma torniamo a “Ground Zero”. Oggi l'area è visitata da milioni di persone ogni anno e, nonostante siano passati ben 24 anni e un giorno dal crollo delle torri gemelle, l'aria che si respira continua a restituire quel sapore aspro e pungente di una terribile giornata di fine estate. Al posto dei grattaceli, oggi ci sono due immense vasche alte 9 metri, bordate da pannelli in bonzo con incisi i nomi delle vittime, che ricalcano il perimetro delle torri. Da queste cadono a ciclo continuo cascate di acqua da ogni lato della vasca, in un ininterrotto e lento scorrere che, paradossalmente, congela il tempo. Non puoi voltare lo sguardo altrove quando sei a “Ground Zero”, quel fruscio ostinato ti entra nelle ossa mentre il silenzio restituisce un senso di pace, fortemente contrastante con quel luogo, inconsapevolmente e involontariamente, diventato un vero e proprio teatro di guerra.
Tornare a visitare quelle “vasche” è stato riaprire una ferita che difficilmente si rimarginerà. Comprendere la cattiveria umana resta uno dei misteri irrisolvibili della mia esistenza, mentre riconoscere la capacità di cura che è sorta da quelle macerie è la lezione che il luogo impone. Il Memoriale è insieme ammonimento e promessa: non dimenticare, ma costruire. In quel fruscio d'acqua, il mondo impara a tacere e a misurare la propria modestia. Quelle cascate che scendono senza sosta ci ricordano che la memoria non è una lapide immobile, ma un flusso perpetuo che ci interroga ogni giorno: “Che cosa facciamo, noi, con il tempo che ci resta?”.
E lì, fra nomi incisi nel bronzo e il silenzio che pesa più di qualunque parola, si comprende che il vero opposto della violenza non è la vendetta, ma la custodia: custodire la dignità dell’uomo, custodire il ricordo, custodire la pace fragile che siamo capaci di costruire.
In fondo, visitare “Ground Zero” non è un viaggio a ritroso nel dolore, ma un esercizio di responsabilità: ricordare per non ripetere, fermarsi per imparare a ripartire. Forse è questa la più dura delle verità che l’umanità non può permettersi di dimenticare, perché ogni volta che dimentica, si condanna a ricominciare dal vuoto.