Così l’Italia scoraggia chi crea occupazione

Navanteri

C’è un paradosso che attraversa l’economia italiana e che nel 2025 è diventato insostenibile: chi prova a crescere, assumere e creare lavoro viene punito più di chi resta fermo o scivola nelle azioni della irregolarità “ordinaria”.

La pressione fiscale non è più uno strumento di equilibrio sociale, ma una morsa che stringe soprattutto le micro e piccole imprese, quelle che costituiscono l’ossatura reale di questo nostro sgangherato Paese.
Il copione è sempre lo stesso. Un’impresa decide di fare il salto, investe, assume personale, spesso giovani del territorio, paga stipendi, contributi, imposte, rispetta i tempi e le regole. Il fatturato cresce, ma la liquidità si assottiglia fino a diventare un’illusione. Alla fine dell’anno, quando arrivano tutte insieme le scadenze fiscali e contributive, il conto è impietoso: si lavora molto, si incassa per quel che si può (chi deve pagare molte volte non rispetta i tempi), ma sul conto resta pochissimo. E allora l’imprenditore è costretto a una scelta che non dovrebbe esistere in uno Stato civile: privilegiare i salari, perché dietro ci sono famiglie, o le tasse, sapendo che ogni ritardo verrà punito senza misericordia?
La pressione fiscale italiana resta tra le più alte d’Europa, ben oltre la media dell’Unione, con un cuneo fiscale sul lavoro che scoraggia le assunzioni e trasforma ogni nuovo posto creato in un rischio. A questo si sommano costi energetici elevati, accesso al credito più difficile e una burocrazia che non distingue tra chi evade e chi sbaglia perché è arrivato al limite. Il risultato è un sistema che non accompagna la crescita, ma la ostacola.
In questo contesto, la retorica sull’imprenditore come motore dello sviluppo suona vuota. Perché se assumere significa esporsi a un carico fiscale che non tiene conto dei cicli economici, se ogni difficoltà temporanea viene trattata come colpa, allora il messaggio è chiaro: non conviene rischiare. Peggio ancora, si crea un incentivo perverso. Chi resta nella legalità viene schiacciato, chi lavora ai margini trova spazi di sopravvivenza. È così che si alimenta il lavoro nero, non con la cattiva coscienza degli imprenditori, ma con un sistema che rende la regolarità economicamente fragile.
La domanda, allora, è politica e morale insieme. Così facendo, non si condanna chi assume e crea occupazione? Non si trasforma il fisco in un fattore di espulsione dal mercato? E quando un’impresa chiude, lasciando a casa lavoratori e competenze, di chi è davvero la responsabilità? Continuare a rispondere che la colpa è sempre dell’imprenditore è una scorciatoia che il Paese non può più permettersi.
Uno Stato che vuole crescita deve saper distinguere, accompagnare, modulare. Deve prevedere strumenti di sostegno nei momenti critici, meccanismi di flessibilità reale, non slogan. Perché un’impresa che paga, assume e investe non è un bancomat da spremere fino all’osso, ma un bene collettivo da proteggere.
Se il fisco continua a trattare chi lavora come un sospettato permanente, il rischio non è solo la chiusura di aziende. È la desertificazione produttiva, la fuga di energie, la rinuncia a creare lavoro. E quando questo accade, non è l’impresa a fallire. È lo Stato che ha smesso di essere alleato di chi prova a costruire futuro.

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