C’è una parola che in Calabria pesa come una pietra e profuma come una speranza: restare.
Restare non è comodo. Non è inerzia. È scegliere di non andarsene, quando tutto intorno ti spinge a mollare. È un atto di resistenza civile, e anche un po’ di follia.
Perché qui restare significa sfidare la logica, le statistiche e spesso perfino la speranza.
Oggi i numeri raccontano una storia che conosciamo bene: la Calabria continua a perdere i suoi figli migliori. Secondo l’Istat, tra il 2023 e il 2024 sono stati oltre 150mila gli italiani che hanno lasciato il Paese, e la Calabria è tra le regioni più colpite. Giovani, laureati, energie che lasciano questa terra in cerca di un futuro migliore. Chi resta, invece, lo fa sapendo di affrontare stipendi tra i più bassi d’Italia e un reddito medio che resta sotto i 17mila euro l’anno. Ma dietro queste cifre non ci sono solo statistiche: ci sono vite, scelte, sofferenze e un desiderio che resiste.
Io ho scelto di restare.
Quando nel 2009 ho fondato questo giornale, l’ho fatto senza avere editori alle spalle, senza reti di protezione, solo con l’idea che raccontare la verità potesse servire a qualcosa. Non è stato facile. Fare informazione libera costa, e il nostro territorio non sempre è disposto a riconoscerne il valore. Si pretende la notizia come un diritto, ma raramente si comprende che anche fare informazione è lavoro, fatica, tempo, dedizione. Eppure, nonostante tutto, siamo ancora qui. Perché restare è anche questo: non smettere di credere che valga la pena provarci.
Chi resta, però, lo sa: ogni giorno è una salita. Deve inventarsi il lavoro, la rete, il futuro. Deve convivere con un sistema che spesso soffoca il merito, che applaude a parole ma sabota nei fatti, che esalta chi parte e diffida di chi prova a cambiare le cose da dentro.
E allora sì, a volte ci si arrabbia. Perché qui la mediocrità ha imparato a travestirsi da saggezza, e la rassegnazione si spaccia per realismo. Eppure, tra le pieghe di questa terra ferita, ci sono uomini e donne che ogni giorno scelgono di restare: imprenditori che riaprono un’attività, insegnanti che non si arrendono, giovani che tornano per investire, giornalisti che raccontano senza padroni.
Questo è il coraggio di restare: non un atto di eroismo solitario, ma una forma di amore politico.
Restare è costruire, con le proprie mani, un senso possibile. È dire no all’idea che la Calabria sia condannata a sopravvivere, e sì all’idea che possa rinascere. Ma chi resta non può essere lasciato solo.
Serve una comunità che accompagni, che sostenga, che smetta di guardare con sospetto chi prova a fare. Serve un’alleanza civile tra cittadini, imprese, istituzioni, associazioni. Perché la libertà, quella vera, nasce solo dove si coltiva insieme.
Se domani dirittodicronaca.it chiudesse, la perdita non sarebbe mia. Sarebbe collettiva. Ogni voce che si spegne, ogni progetto che si arrende, è un pezzo di democrazia che muore.
Per questo dico: basta indifferenza. Basta con la gioia amara di chi tifa per il fallimento altrui.
Non chiediamoci più soltanto chi ha il coraggio di restare. Chiediamoci che cosa possiamo fare noi perché chi resta non debba più sentirsi un sopravvissuto, ma un costruttore di futuro.
Il coraggio di restare è il nostro vero capitale. Sta a noi decidere se investirlo, o lasciarlo morire.
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