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C’è un momento dell’anno in cui il mondo intero si confronta, più o meno consapevolmente, con la morte. È la soglia tra ottobre e novembre, quando Halloween apre la porta alle feste dei Santi e dei Defunti.

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Ma dietro le zucche e i costumi, dietro le lanterne e i travestimenti, si nasconde qualcosa di molto più profondo: il modo in cui una società sceglie di ricordare i suoi morti e, con essi, se stessa. Da oggi il mondo apre le porte a una serie di ritualità, gesti e tradizioni che si rinnovano anche in maniera bizzarra. 
Una delle “feste” più note al mondo è sicuramente quella che si festeggia in Messico, dove il Día de los Muertos è una celebrazione di luce, di musica, di fiori. Le famiglie costruiscono altari colorati, preparano i piatti preferiti dei propri cari, accendono candele e accolgono i defunti come ospiti attesi. Non è un carnevale macabro: è un rito che trasforma il dolore in continuità. Un legame tra generazioni, una pedagogia della memoria. Proprio su questa ricorrenza la Pixar ha realizzato il suo film d'animazione “Coco” che ha raccontato al mondo la bellezza complessa di quelle giornate.
Altrove, come in Indonesia, nel cuore di Sulawesi, il popolo Toraja pratica il rito del Ma’nene: ogni anno, i corpi degli antenati vengono riesumati, lavati, rivestiti e onorati. Un gesto che ai nostri occhi può sembrare estremo, ma che racchiude un’idea potente: la morte non interrompe la relazione, la trasforma. È un atto di cura, di presenza, di comunità.
In Europa, invece, le tradizioni sono più sobrie ma non meno dense. A parte l'Italia, dove anche Halloween trova spazio nelle manifestazioni popolane, già da qualche giorno si visitano i cimiteri, si portano fiori, si recitano preghiere. Nel Regno Unito, invece, a novembre si indossa il poppy, il papavero rosso che ricorda i caduti di guerra. È un lutto nazionale, ma anche un monito: la memoria non deve dormire.
In questo scenario globale, Halloween rischia di essere la caricatura del ricordo. Il compito non è demonizzare il divertimento anzi, è comprenderlo, riorientarlo, dargli profondità. Ogni popolo ha diritto a giocare con le proprie paure, ma nessuno può permettersi di banalizzarle. 
E allora, forse, anche noi potremmo imparare dai messicani la gioia che non dimentica, dai Toraja la cura che non teme il tempo, dagli inglesi la sobrietà che non cede al rumore. Perché il modo in cui trattiamo i nostri cari defunti dice tutto di noi: è la misura della nostra umanità, della nostra memoria, della nostra capacità di resistere al nulla.
Stasera, mentre qualcuno busserà alle porte per un dolcetto o uno scherzetto, fermiamoci un istante a pensare. Dietro ogni maschera c’è un volto, dietro ogni festa un significato.
E se imparassimo a onorare la morte come celebrazione della vita, forse smetteremmo di averne paura.

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