Il grande tema delle migrazioni ci pone davanti a un dato di fatto: partire è un atto di disperazione. Nel 2025 l'odissea del viaggio non assomiglia nemmeno lontanamente al romanzo del riscatto che continuiamo a raccontarci.

È invece la porta d’ingresso in una lunga stagione di stenti, dove la speranza si scontra con un’Europa che accoglie senza essere pronta, e un’Italia che assiste quasi indifferente al flusso inesorabile di chi arriva e di chi fugge.
La narrazione eroica del migrante che cerca fortuna è ormai una storia che non trova più riscontri. Chi parte oggi, spesso, scambia un’illusione per una via di salvezza. E una volta arrivato, scopre di essere precipitato in una rete sociale disordinata, incapace di proteggere e integrare. La sconfitta è doppia: per chi arriva, che si ritrova prigioniero di una promessa disattesa; e per noi, che continuiamo a sbandierare l’accoglienza senza costruirla davvero.
Il teatro di questo inganno è una terra che conosciamo bene. Le campagne italiane, dal Sud ferito al Nord che corre, sono diventate l’epicentro di una nuova povertà. Qui il lavoro non è più riscatto, ma sopravvivenza: turni infiniti, salari da fame, caporalato nascosto nelle pieghe dei contratti stagionali. Gli esseri umani si trasformano in braccia da spremere, in numeri da allineare nelle statistiche, in ombre anonime tra i filari. È lì, in quei campi, che il sogno occidentale svanisce ogni giorno, mentre le mani che raccolgono la nostra frutta non riescono a raccogliere un proprio futuro.
E la tragedia inizia ancora prima. Ogni traversata verso l’Europa è diventata il tassello di un business criminale che prospera sulla disperazione. Le rotte illegali non sono un incidente: sono la conseguenza diretta della chiusura delle rotte legali. Più si alzano i muri, più si rafforzano gli scafisti e i criminali in genere. E ogni barcone che affonda è la firma indelebile di una politica che gioca con la vita umana come fosse una variabile di bilancio.
E quando finalmente si arriva sulla terra ferma, l’atterraggio è ancora più duro. Senza percorsi di integrazione, senza case, senza contratti veri, senza scuole stabili per i figli, senza una comunità educata al rispetto verso il prossimo, anche se ha un colore di pelle diverso, il migrante non entra in una nuova vita, ma entra in un limbo permanente. Tanto che chi vive questa parabola, dopo anni di fatica, risponde quasi sempre nello stesso modo: “se potessi tornare indietro, non partirei”. E questo è il fallimento più devastante. Perché racconta che non siamo stati capaci di trasformare una crisi in un’opportunità. Racconta che non abbiamo saputo essere società.
Nel frattempo, mentre parliamo ossessivamente degli stranieri, ignoriamo che anche noi continuiamo a partire. Il Sud Italia si svuota, i giovani migrano verso il Nord o all’estero, attratti da ciò che non riescono più a trovare in casa: lavoro, servizi, dignità. Le due fughe, quella dei migranti verso di noi e quella dei nostri ragazzi lontano da noi, raccontano la stessa storia, quella di territori che non hanno più nulla di attrattivo per restare.
Allora che fare? Non certo invocare accoglienze senza regole né blindare confini che generano morte. Serve un progetto serio che metta insieme diritti e mercato, legalità e sviluppo. Servono canali d’ingresso regolari basati sul lavoro reale, non sulla clandestinità. Servono controlli duri contro lo sfruttamento e investimenti per trasformare le nostre campagne in luoghi di dignità, non di vergogna. Serve affrontare la migrazione degli italiani con la stessa urgenza con cui affrontiamo quella degli stranieri, perché un Paese che perde i suoi giovani e sfrutta chi arriva è un Paese che non mette al primo posto la dignità per la costruzione del proprio futuro.
Questo atto di accusa vuole solo far emergere come la vera sconfitta non è che la gente continui a partire, ma che nessuno abbia un posto dove restare con dignità. Restare dovrebbe essere una possibilità. E quando una società non riesce più a garantire nemmeno questo, non è la speranza a morire, è la civiltà.

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