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Ieri, 9 ottobre 2025, è stato annunciato un passo che molti avevano ritenuto impossibile. Israele e Hamas hanno accettato la prima fase del piano mediato proposto dagli Stati Uniti, il cosiddetto “Trump plan”, che prevede un cessate il fuoco, il ritiro di forze israeliane da aree di Gaza e lo scambio di prigionieri e ostaggi nelle ore successive.

Bnl

È un segnale di tregua che ancora porta con sé una speranza sospesa.
Ma la Storia non si scrive negli accordi: si pesa in vite. Il 7 ottobre 2023, miliziani di Hamas irruppero in comunità israeliane: le stime ufficiali parlano di circa 1.200 morti e oltre 250 rapiti. Quella carneficina fu l’innesco di una guerra che ha macinato dolore e sangue.
La reazione di Israele fu massiccia e ininterrotta: le cifre riportate dalle autorità palestinesi superano le 67.000 vittime nella Striscia di Gaza, con centinaia di migliaia di feriti e sfollati. In quella conta ci sono bambini, scuole distrutte, famiglie sradicate. Non statistiche, ma volti che non torneranno mai a sorridere.
C’è allora da chiedersi: che valore può avere un cessate il fuoco se non affianca giustizia, memoria e responsabilità? L’accordo annuncia scambi di ostaggi, corridoi umanitari e fase di ricostruzione. Ma la vera prova non sarà la firma, ma il lavoro quotidiano che impedirà di costruire trappole e che i prigionieri non tornino alla vendetta.
Intanto, alcuni potenti inneggiano già alla pace firmata e propongono il Premio Nobel per la Pace a Donald Trump. È una follia che merita di essere denunciata. Perché attribuire il Nobel all’artefice di un accordo che ancora attende di diventare realtà è una forzatura storica: è celebrare la tregua prima di aver costruito la pace, è premiare l’idea prima del risultato. Gli eroi della pace non sono quelli che aspirano al titolo, ma quelli che sostengono la verità anche quando è scomoda, che insistono sui diritti quando il vento cambia. Quelli che hanno fatto scelte nel nome del coraggio e dell'integrità.
Oggi non possiamo accettare una pace fatta di slogano ma serve verità sui crimini, riparazioni, riconoscimento dei diritti politici palestinesi. Serve disarmo selettivo e non impunità globale.
Chi ha perso tutto non reclama scenari ideali: chiede l’acqua che scorre, l’ospedale aperto, la scuola che torna viva. Per loro, l’accordo sarà degno solo se restituirà vita. Il resto del mondo ha un obbligo: vigilare, pretendere che chi celebra sia giudicato sui fatti, non sugli slogan.
Ieri è stato compiuto un passo di speranza. Ma la Storia insegna che i passi veri si misurano sul campo. Chi ama la pace ora deve trasformare l’applauso in impegno, perché le parole valgono solo se accompagnate da azioni che restituiscono il diritto fondamentale, quello a non morire per essere nati.

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