L’esperienza all’ospedale di Bergamo è stata la più dura della mia vita: non solo per la diagnosi che mi attendeva, ma anche per i trattamenti e le umiliazioni che ho dovuto subire. Essere ripresa con una videocamera mi faceva provare un profondo senso di imbarazzo, come se fossi un fenomeno da baraccone.
I miei disagi venivano così registrati e mostrati come curiosità cliniche. Anche il prelievo del liquor spinale non fu affatto semplice: rispetto ad altri pazienti, io stetti molto peggio. Ebbi un fortissimo mal di testa che mi costrinse a letto per due giorni consecutivi, oltre a svenimenti causati dal dolore provocato dall’incompetenza di un tirocinante, che tentò la procedura due volte senza riuscirci.
Durante i miei ricoveri, ho constatato alcune differenze tra Sud e Nord: per esempio, il numero di infermieri. A differenza degli ospedali del Sud, al Nord lavorano molti più infermieri nei reparti ma pochi di loro provano empatia, rispetto e sensibilità per i pazienti. Ricordo alcune notti in ospedale in cui pazienti, che avevano precedentemente avuto ictus o soffrivano di demenza, cercavano di alzarsi e mangiare da sole ma non ne avevano la forza. L’unica cosa che potevo fare per aiutarle era suonare il campanello, nella speranza che qualche infermiere arrivasse. Quando finalmente si presentavano e spiegavo loro la situazione, mi rispondevano: “Si faccia i fatti suoi, domani mattina ce ne occuperemo”. Allora mi alzavo, cercando di aiutare anche se già usavo il deambulatore. Una signora della mia età aveva avuto un ictus, non riusciva né a parlare né ad afferrare le posate per mangiare e ciò la rattristiva al punto da piangere. Mi avvicinavo e la imboccavo senza farla sentire in imbarazzo. Quando la spostarono in un altro reparto, mi ringraziò nell'unico modo in cui avrebbe potuto farlo: con gli occhi. Non lo dimenticherò mai. C’era un ragazzo di nome Diego di 16 anni, il quale soffriva di Tourette, che mi raccontava la sua storia e di come convivesse con una madre alcolizzata ed un padre completamente assente. Nel periodo in cui rimasi ricoverata, non vidi mai un suo parente. Ogni mattina mi chiedeva se volessi il caffè dal bar dell'ospedale, a piano terra, noi ci trovavamo al quarto piano, ma sapevo che non sarebbe riuscito nel compito. Anche se sembrano ricordi dolorosi, ho imparato a prenderne il meglio, ascoltavo e mi ascoltava, ci aiutavamo a vicenda. Anche se non li conoscevo, non aveva importanza, il dolore, la sofferenza mi legava a sconosciuti in quel reparto. La solidarietà aiutava tutti ma soprattutto me in quanto ero l'unica che veniva da un paese lontano. Ogni momento insieme era prezioso e questo dovrebbe essere il modo di concepire la vita.