Negli ultimi decenni, fior di studi sociologici e psicologici indicano tra le concause della decadenza dell’Occidente il progressivo ridimensionamento dell’autorevolezza ‒ concetto ben distante, ça va sans dire, da quello di autorità ‒ della figura paterna che, com’è ormai acclarato, plasma e condiziona, nel bene e nel male, gli assetti esistenziali della prole.
Con ammirevole lungimiranza, nel lontano XIX secolo, il prolifico scrittore russo Fëdor Dostoevskij (1821-1881) ebbe modo di anticipare sul predetto tema il pensiero moderno, circoscrivendo in maniera lapidaria l’essenza stessa della paternità e il principale dovere ad essa connesso: «Colui che genera un figlio non è ancora un padre. Un padre è colui che genera un figlio e se ne rende degno» (I fratelli Karamazov).
Nonostante questi e tanti altri buoni esempi, non mancano modelli paterni profondamente distorti i cui danni incalcolabili ‒ sotto il profilo comportamentale e sociale ‒ sono al centro di una letteratura contemporanea che si è espressa attraverso testi di grande valore, tra cui il romanzo La sua preferita di Sarah Jollien-Fardel.
Ambientato nella splendida cornice montana del Vallese, cantone svizzero noto per i paesaggi suggestivi e il mantenimento di antiche tradizioni rurali, vi si racconta la complessa vicenda familiare di Jeanne, giovane studentessa a cui la vita ha riservato le percosse, gli abusi, le pressioni e le umiliazioni subite da Louis, padre violento e alcolizzato che, benché di infima statura morale, giganteggia con prepotenza sull’intera narrazione. Egli, dominato da un temperamento iracondo e da un eloquio costantemente volgare, terrorizza la debole moglie Claire e le due figlie (Emma e la già citata Jeanne) imponendo in casa un clima di quotidiana minaccia, paura e ricatto economico.
Gli episodi di brutalità si susseguono con sconvolgente frequenza e rimangono indelebilmente impressi nell’animo sensibile della protagonista che, in uno dei tanti momenti di giustificato sconforto, arriva a constatare amaramente di essere stata privata della serenità assieme alle altre donne di casa da un uomo ‒ termine che, in questa specifica circostanza, non può che avere solo ed esclusivamente un’accezione biologica ‒ che «ha confiscato tutte le nostre allegrie, ha massacrato tutte le nostre gioie».
Lo studio e la passione per i libri diventano il solido alibi affinché Jeanne possa finalmente allontanarsi dalla bolgia infernale in cui è nata e cresciuta, ma il veleno di un’infanzia rubata è ormai penetrato nel suo essere e ciò la rende irrimediabilmente inquieta, incapace di trovare un senso alle cose e all’esistenza stessa.
I chilometri che la separano dal suo nucleo familiare non sono mai abbastanza e il dolore diviene ancor più insostenibile quando Emma, assunta come barista e occasionale intrattenitrice degli avventori del locale, si suicida drammaticamente.
Jeanne è catturata dal vortice di situazioni che la città di Losanna riesce a costruire attorno a lei. Abbandona l’insegnamento a cui si era dedicata e trova impiego in un’agenzia pubblicitaria che le permette di godere di quella libertà di movimento agognata sin da bambina e mai realmente avuta.
Anche il versante sentimentale risente della disastrosa influenza del prototipo maschile di riferimento, cosicché la giovane intraprende una serie di convivenze con donne ‒ Charlotte prima e Marine poi ‒ che non riusciranno comunque a scalfire quella corazza difensiva inevitabilmente indossata per non sprofondare nella disperazione totale. Lo stesso Paul Leone, dirigente aziendale dai modi signorili di cui Jeanne s’innamorerà, non avrà la capacità di liberarla dalla prigionia del suo orrendo passato.
Il tempo è proverbialmente galantuomo e consente, almeno in teoria, di restituire in positivo e in negativo ciò che si è ricevuto. Giunge pertanto il giorno in cui il vecchio padre, vedovo ‒ dacché la tanto martoriata Claire era in precedenza deceduta in un tragico incidente stradale ‒ e malato, abbraccia un pentimento posticcio nella speranza di ripulire tardivamente una coscienza arida di bontà per lunghissimi anni, ma l’atteso perdono non arriva, negato da un moto d’orgoglio ‒ cristianamente intollerabile, ma umanamente comprensibilissimo ‒ dell’unica sopravvissuta alle sue angherie.
Jeanne potrebbe finalmente essere libera dall’opprimente eredità paterna, ma questa continua ad alimentare i timori ormai radicati e a tormentare una pace che mai più potrà essere raggiunta, conducendo la narrazione verso un finale aperto e ambiguo, inaspettato per il lettore e al quale ognuno è legittimato a dare un significato in base alla propria emotività.
Una nota a parte merita il villaggio nel quale la protagonista nasce e affronta le sue prime esperienze. Gli abitanti sono fortemente legati alle consuetudini arcaiche e non disdegnano di nutrire i pettegolezzi che riguardano le abitudini ferine di Louis, ma nessuno ha il coraggio o l’interesse di intervenire in favore delle vittime di quella palese inumanità: persino il dottor Fauchère, medico condotto del paese chiamato a curare le contusioni dell’ancor bambina Jeanne, rivolge lo sguardo altrove, salvo poi redimere, qualche anno dopo, tale vigliaccheria con un gesto di sincera solidarietà.
Anche la natura ricopre un ruolo cruciale nel romanzo di Sarah Jollien-Fardel. Essa detiene un potere consolatorio che concede alla disperata Jeanne di ritrovare sprazzi di lucidità immergendosi tra le cristalline acque del lago Lemano ‒ «Se per molti la sua bellezza semplice e tranquillizzante è sufficiente a lavare gli occhi, per me il lago è testimone e complice del mio mutamento» ‒ o contemplando la flora primaverile delle tanto amate montagne del Vallese.
C’è dunque spazio per la speranza ‒ se non altro quella offerta dalla natura ‒ in un contesto crudele e lacerante, ma le ferite restano e tardano a rimarginarsi, sanguinando al ricordo di ogni occasione mancata e dinanzi alla realtà che è stata, ma che si desiderava decisamente diversa.
Le tematiche affrontate dalla scrittrice elvetica rammentano molto da vicino quelle magistralmente sviluppate di recente da Andrea Bajani nel romanzo L’anniversario, vincitore dell’ultima edizione del prestigioso Premio Strega, sebbene lo stile dei due autori sia nettamente diverso. La pagina dello scrittore romano ha l’andamento di lunga e sofferta confessione, mentre la narrazione di Jollien-Fardel procede delicata e nostalgica, sino a trasformarsi in una cullante melodia di sottofondo.
Le drammatiche cronache dell’attualità ci impongono di tenere alta la guardia contro le conseguenze della degenerazione educativa che si consuma in seno alle famiglie disfunzionali. Sicuramente, libri come La sua preferita costituiscono un presidio culturale valido per prevenire, o comunque cogliere sin da subito, i segni di atteggiamenti inqualificabili ai quali occorre opporsi con fermezza.
La lettura allieta lo spirito ma, non v’è dubbio, che in casi come questi può salvare addirittura delle vite.