Al di là delle legittime rimostranze di qualche nostalgico idealista, l’epica battaglia tra socialismo e capitalismo si è di fatto conclusa con l’affermazione, più o meno totale, di quest’ultimo sistema ideologico che, con scaltrezza levantina, è riuscito a sacrificare i sacrosanti principi di equità e umanitarismo sull’altare del consumismo.
L’illusorio benessere che ne è scaturito ha consentito all’artigiano, all’operaio, all’impiegato e al dirigente aziendale di essere accomunati dal possesso di uno smartphone costoso o di un SUV più o meno abbordabile ‒ anche a rate, s’intende ‒, ma ha anestetizzato quella coscienza che, fino a qualche decennio addietro, levava la voce contro disparità, ingiustizie e terrificanti sperequazioni salariali.
Il capitalismo ha dunque vinto bluffando, rivestendo di una patina smagliante ‒ più adatta alla pubblicità che alla realtà ‒ ogni aspetto della vita e infondendo una fiducia immotivata in possibili riscatti sociali la cui ingannevolezza è palese, ma il cui potere di seduzione ha portato a ritrarre lo sguardo dai divari ‒ materiali, culturali e spirituali ‒ che si celano tra ceti sempre più abbienti e arroganti e classi sempre più oppresse e consenzienti, la cui capacità critica si è polverizzata dinanzi alla fallace ostentazione di ciò che non si è e, forse, non si sarà mai.
Tuttavia, a ben vedere, anche il capitalismo si è involuto, degenerando in un iperliberismo senza regole che ha prodotto soggetti il cui rapporto con il lavoro assume tratti pericolosamente patologici.
Appartengono sicuramente a questa schiera i protagonisti di Estensione del dominio della lotta di Michel Houellebecq (1994) e Il dipendente di Sebastiano Nata (1995), due romanzi di sconvolgente realismo su cui è necessario spendere qualche considerazione.
Lo scrittore francese ci accompagna all’interno dell’apatica routine di un giovane analista programmatore di cui non si cita mai il nome di battesimo, probabilmente allo scopo di voler individuare non tanto un singolo individuo ben delineato da proprie peculiarità psicofisiche, quanto piuttosto un tipo umano che potrebbe identificare chiunque ‒ lettore compreso ‒ si accosti al mondo con un senso di distacco non dettato da fondamenti filosofici o spirituali, ma indotto da una società che travolge e massifica, spegnendo sul nascere ‒ e, spesso, nell’umiliazione ‒ qualsivoglia principio di lotta e di diversità.
Senza ambizioni, indifferente, marcatamente cinico, con pochi amici e una deludente situazione amorosa alle spalle, l’inquieto personaggio si abbandona alla disperata disamina di una collettività con la quale, a malincuore, è costretto per natura e per lavoro ad interagire costantemente. Ne scaturisce una dolorosa meditazione ‒ non possiamo certo credere che dietro tale freddezza non ci sia comunque un fondo di logorante sofferenza ‒ che si esprime pressappoco nei termini di una lettera d’addio: «Questo mondo non mi piace. Non lo amo, decisamente. La società in cui vivo mi disgusta; la pubblicità mi nausea; l’informazione mi fa vomitare. Tutto il mio lavoro di informatico consiste nel moltiplicare i riferimenti, le verifiche, i criteri di decisione razionale. Il che non ha alcun senso. A dirla tutta, è addirittura negativo: un inutile ingorgo per i neuroni. Questo mondo ha bisogno di tutto tranne che di informazioni supplementari».
A ciò si aggiunge anche un’amara riflessione sulla tecnologia che spersonalizza, prosciuga le anime e restituisce una progressiva desertificazione dell’empatia che è stata nei secoli la componente essenziale che ha traghettato l’Uomo dall’individualismo dell’epoca delle caverne all’unità di intenti di quella delle nazioni. A tal proposito, Houellebecq formula un giudizio che ha i toni rigidi di una sentenza inappellabile: «Sotto i nostri occhi, il mondo si uniforma; i sistemi di telecomunicazione progrediscono; l’interno degli appartamenti si arricchisce di nuovi congegni. I rapporti umani diventano progressivamente impossibili, e questo riduce in proporzione la quantità di aneddoti di cui si compone una vita. E a poco a poco appare il volto della morte, in tutto il suo splendore. Il terzo millennio promette bene».
Ad aggravare lo scenario contribuisce lo squallore delle strade di una Rouen allucinata e allucinante, con locali immersi in una penombra materiale e morale e una campagna dominata da un grigiore stancante per gli occhi e devastante per la mente.
L’inevitabile conseguenza di tutto ciò è la malattia del protagonista che mina dapprima il fisico tramite una pericardite e, in seconda battuta, la sua interiorità attraverso un’alienazione le cui reali cause non saranno comprese neppure dal qualificatissimo psichiatra di turno.
Una parabola molto simile, ma con esito differente, sarà quella di Michele Garbo, protagonista del romanzo di Sebastiano Nata.
Top manager di un settore ‒ quello delle carte di credito ‒ in piena espansione a metà degli anni Novanta, completamente sopraffatto dalla pressione di un lavoro che impone dall’alto obiettivi impossibili, ferito dalla recente separazione da una donna amata e tradita, offeso dall’esito di un secondo legame sentimentale conclusosi con la beffarda scoperta di un tradimento omosessuale della compagna, costretto a risiedere in una squallida camera d’albergo e a mangiare «schifezze da bar», il nostro personaggio sfoga il comprensibile risentimento contro Ben ‒ un accanito fumatore belga posto ai vertici dell’azienda ‒, illudendosi di poter raggiungere irrealistici traguardi lavorativi al fine di compiacerlo e abbandonandosi alle sporadiche frequentazioni di prostitute e viados che soffocano temporaneamente le sue afflizioni nel vortice dei piaceri carnali.
Michele è vittima ‒ più o meno consapevole ‒ di un sistema che rende tutti inessenziali e facilmente interscambiabili, che annichilisce affetti e relazioni e nasconde dietro l’ipocrisia e l’abusato termine “risorsa” un semplice tassello ‒ di un diabolico ingranaggio produttivo ‒ a cui viene vampirizzata ogni caratteristica umana e il cui valore viene quantificato solo in termini di resa aziendale e di passiva sottomissione alle spietate regole del mercato.
Con prosa breve, scattante e nervosa tipica di un monologo e un ritmo incalzante che ipnotizza facilmente il lettore, Nata ci offre una chirurgica esplorazione di illusioni, delusioni e collusioni del suo personaggio che, alla fine, sommerso dal peso dell’esistenza e dall’insensibile ostilità che lo circonda, si abbandona ad una morte ‒ accidentale sì, ma nel profondo desiderata ‒ dinanzi alla quale si presenta pronunciando in un sussurro il nome di Ben, il tanto odiato capo, e quello di Maria, l’adorata figlia, quasi a voler condensare i due opposti sentimenti in un unico rantolo che precede il momento supremo del trapasso.
L’anonimo protagonista del romanzo di Houellebecq e l’analoga figura del libro di Nata danzano metaforicamente nella tempesta di una quotidianità scandita da agende, impegni, caffè e nicotina, privati di quello spazio vitale in cui coltivare legami significativi che nulla hanno a che vedere con le continue corse contro il tempo e le gravose incombenze lavorative imposte dall’avido e sfrenato capitalismo di cui si parlava pocanzi.
La follia e la morte si ammantano di capacità liberatorie ma, dinanzi ad una tale impietosa radiografia della contemporaneità, emerge il ruolo sostanziale che la cultura può assumere, divenendo un vero e proprio anticorpo contro lo sfacelo generale e il fatale senso di inettitudine che ne deriva.
Houellebecq e Nata ci forniscono la descrizione del male raccontandoci di nuove schiavitù, a noi spetta il compito di riconoscerlo e contrastarlo, gettando le basi di un nuovo umanesimo che, a conti fatti, è l’unico antidoto per recuperare una centralità sociale ormai perduta.