Annus Domini 1917. Mentre il mondo è in fiamme e si consumano le immani stragi della Grande Guerra, a Davos, nella neutrale Svizzera, in una lussuosa stazione climatica destinata principalmente alle cure di facoltosi pazienti affetti da tubercolosi, si riuniscono alcuni esponenti delle élites europee che, tra coppe di champagne, fumo di tabacchi aromatici e stravizi, discutono di affari e dell’assetto futuro che intendono imprimere alla società postbellica.
Tuttavia, nel sanatorio di Peter Gabathuler gli ospiti, benché apparentemente immersi in una bolla di benessere, divengono registi di azioni ambigue, stringono inaspettate alleanze e avviano un meccanismo fondamentale e pericoloso in cui si mescolano politica, ambizioni personali e intelligence, creando pertanto una miscela appassionante e letale che se da un lato attrae con fare magnetico il lettore, dall’altro dissemina tra le pagine cadaveri e dolore.
Sebbene l’impalcatura di fondo di Davos 1917 sia quella di una spy story, Luca Brosch è in grado di contornare le vicende principali con una serie di episodi che aggiungono tratti sentimentali, a volte eroici, ma sicuramente profondamente umani, in cui è inevitabile riconoscersi.
Ne è indiscutibile emblema la figura di Johanna, protagonista del romanzo, figlia del ricco proprietario della clinica e reduce, in qualità di infermiera volontaria, da Verdun, località in cui si è tristemente combattuta una delle più sanguinose battaglie della Prima Guerra Mondiale.
Donna coraggiosa, innamorata, sfortunata, si ritrova, suo malgrado, a dover gestire un gioco di sottili equilibri ben più grande di ogni sua aspettativa. Mossa da una forza leonina ‒ tale è quella della disperazione ‒, è costretta dagli eventi a servire un Paese al quale non appartiene e ad essere strumento di un gioco di potere in cui uomini e donne diventano pedine utili a veicolare informazioni, ma facilmente sacrificabili nel momento in cui le loro missioni sono considerate concluse o le identità fittizie compromesse.
Johanna conosce la sofferenza: quella fisica, sperimentata tra le trincee e tra i corpi vulnerati dei militari a cui ha prestato cura e soccorso, e quella interiore, che le ha stravolto la vita prima attraverso il lutto ‒ con la morte di Erich Seidel, soldato tedesco di cui si era innamorata ‒ e poi per mezzo della sottrazione forzata di sua figlia Elli, orchestrata dal vecchio padre e dalla sorella Mathilde al fine di salvare un ancestrale concetto dell’onore.
Violata negli affetti, la donna è individuata e coinvolta dalla contessa Ilse von Hausner in una complessa operazione di spionaggio che avrà come obiettivo la costruzione di una politicamente improbabile alleanza tra la Germania assolutista del Kaiser Guglielmo II e gli esiliati rivoluzionari comunisti russi che, capeggiati simbolicamente e fattivamente da Lenin, saranno adeguatamente finanziati per attuare un golpe in patria e ordinare la ritirata dell’esercito dalle operazioni belliche tramite un armistizio.
Quantunque le sorti del conflitto siano, ad un certo punto della narrazione, addirittura nelle sue mani, Johanna non dimentica l’unico scopo dei suoi immani sacrifici ‒ riottenere la piccola Elli ‒ e ciò la trasforma in donna determinata, a tratti fredda, pronta a sacrificare se stessa e l’intero avvenire in nome di un bene considerato superiore.
Attorno a lei gravitano personaggi enigmatici in cui i concetti di identità e doppio gioco si amalgamano per generare una sequela di colpi di scena che rendono la narrazione carica di tensione e di svolte totalmente inaspettate. Così, un disertore tedesco, disgustato dal comportamento sadico dei commilitoni, si ritrova ad essere tra gli informatori principali dei servizi dell’Intesa e un ex schiavo congolese, pur lavorando per lo spionaggio inglese, non esita ad accoppare un ufficiale superiore belga per consumare un’ideale vendetta contro gli antichi oppressori della sua terra natale.
Insomma, dietro l’apparente quiete dell’innevato paesaggio alpino svizzero brulicano intrighi, passioni, rancori mai sopiti, idealisti, affaristi, manovalanza sanguinaria e vittime di un diabolico sistema che cerca di attribuire e giustificare la propria esistenza addossando qualsiasi colpa alla guerra e deresponsabilizzando, in un certo qual modo, una natura umana che, dalla proverbiale notte dei tempi, di certo non propende verso il bene e la concordia.
Dopo un susseguirsi di rovesciamenti di fronte e improvvisi cambi di prospettiva, Brosch decide di concludere il suo romanzo con un finale inaspettato e aperto. Il ritrovamento di un microfilm e le criptiche parole «Chi vuole la pace, si arma per la guerra» lasciano intendere che, presto, le vicende narrate avranno seguito in un secondo ‒ e, a ben sperare, affascinante ‒ volume.
Nell’incertezza di questo sequel, in un clima rovente ‒ non soltanto, ahimè, dal punto di vista meteorologico ‒ come quello attuale, Davos 1917 ci sprona a riflettere su quell’accanimento comportamentale a cui la società pare averci crocifissi. Non resta che prenderne atto attraverso un lapidario passaggio di cui il libro di Brosch ci fa dono con chirurgica lucidità: «Da quello che aveva sperimentato in guerra Johanna si era convinta che il mondo fosse crudele soltanto in trincea, sul campo di battaglia. Che ingenuità. Tutta la vita era una battaglia, soltanto le armi degli altri e il modo di combattere differivano. La contessa l’aveva imparato ormai da tempo».
Non siamo circondati di santi, ma c’è ancora spazio per la speranza. Tempora bona veniant!