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C’è un equivoco grande come una montagna che da anni avvelena il dibattito sulle minoranze linguistiche storiche: l’idea che bastino affetto, memoria e qualche iniziativa culturale per salvare un popolo. Non è così. Non è più così da molto tempo.

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L’Arbëria non sta morendo per mancanza di poesia, ma per mancanza di visione. Non perché le famiglie non amino la lingua, ma perché non vedono più alcun ritorno nell’usarla. È nella quotidianità che la lingua muore: nelle case dove i genitori parlano sempre meno arbërisht ai figli, nelle scuole che fanno ciò che possono ma non possono tutto, nelle piazze dove la presenza linguistica è diventata un’eccezione e non la regola. Una lingua senza funzione è una lingua destinata al museo, non alla vita.
Il problema non è solo culturale, è economico. L’Arbëria è una minoranza che ha ricevuto, negli ultimi decenni, una quantità impressionante di fondi pubblici, specialmente dalla legge 482/99. Eppure, ciò che vediamo oggi è una cultura che non genera lavoro, una tradizione che non diventa economia, una storia che non trattiene i giovani. I finanziamenti, nella maggior parte dei casi, non hanno creato filiere, né imprese, né prodotti turistici, né percorsi identitari permanenti. Hanno prodotto invece libri che nessuno legge, convegni che non cambiano la realtà e iniziative che, finite le luci del giorno, non lasciano alcun segno nel tessuto della comunità. La minoranza linguistica è diventata per alcuni una tetta da cui attingere latte sempre più prezioso, mentre la maggioranza continua a sopravvivere in un territorio dove mancano servizi, opportunità e modelli di business capaci di convincere un giovane a restare.
E basterebbe guardare un attimo oltre i nostri confini per capire quanto sia stato sprecato. Nel Sudtirolo, per esmpio, la cultura non è un esercizio sentimentale: è economia viva. I ristoranti hanno i camerieri in costume tipico, i menu sono bilingui, la musica tradizionale accompagna il visitatore, la lingua e la tradizione sono strumento di lavoro e attrattività. L’identità è diventata un marchio, un prodotto turistico di qualità, un’esperienza strutturata. E funziona perché non è “folklore”, ma industria culturale. Da noi, invece, la lingua non compare forse mai in un ristorante, non racconta un percorso gastronomico, non veste il personale, non accompagna il turista. È come se l’Arbëria avesse scelto di essere invisibile proprio nei luoghi dove dovrebbe essere più riconoscibile.
Questo è il nodo: finché la cultura non genera reddito, nessuno ci crederà davvero. Finché l’identità non produce lavoro, la minoranza continuerà a perdere pezzi. Finché gli unici progetti saranno pensati per prendere fondi e non per costruire futuro, i giovani continueranno a partire e la lingua continuerà a spegnersi nelle case, nel silenzio di chi non vuole ammettere la sconfitta.
E allora smettiamola di piangerci addosso: la verità è che l’Arbëria non ha un problema di risorse, ha un problema di strategia. Non ha un problema di memoria, ha un problema di progettualità. Non ha un problema di orgoglio, ha un problema di mercato. È inutile invocare la tradizione se nessuno investe per trasformarla in un’esperienza che parli al mondo. È inutile rivendicare la “ricchezza culturale” se non siamo capaci di farne un prodotto attrattivo. Ed è inutile lamentare la fuga dei giovani se continuiamo a offrire un modello economico fermo agli anni Ottanta, dove l’unica prospettiva è accontentarsi o partire.
L’Arbëria non si salva con la nostalgia. Si salva con una strategia industriale. Con coraggio politico, con imprenditori che capiscano che investire nell’identità non è beneficenza ma business, con cittadini che pretendano che ogni euro speso generi impatto e non solo autopromozione. Serve trasformare la lingua in una presenza quotidiana e non in un cimelio da esibire tre volte l’anno. Serve capire che il futuro non si costruisce con i contributi, ma con il lavoro. E serve, soprattutto, la volontà collettiva di dire basta a chi ha usato la tutela linguistica come un patrimonio personale.
L’Arbëria può ancora farcela. Ma deve smettere di vivere di ricordi e iniziare a vivere di strategie. Perché la verità è semplice e crudele: non sopravviverà chi urla più forte di essere Arbëresh, ma chi saprà dimostrare che esserlo conviene. E questo, oggi, non è più un dettaglio culturale. È la differenza tra restare vivi o diventare una nota a piè di pagina nella storia delle minoranze linguistiche d’Italia.

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L’Arbëria non si salva con la nostalgia, ma con una strategia

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