La vicenda di Avetrana, almeno ad un primo impatto, sembra rivestire, dal punto di vista giornalistico, tutti i caratteri meno qualificanti di una professionalità che nomi come Dino Buzzati, Indro Montanelli, Andrea Camilleri, Luciano de Crescenzo (fra i primi che mi vengono in mente) e tantissimi altri, hanno contribuito a rendere splendida e leggendaria.
Oggi, più prosaicamente, quantunque tutto parta dalla volontà tipicamente giornalistica di offrire un servizio agli utenti (significativo in proposito il concetto tutto giornalistico del “diritto di cronaca”), attraverso la stampa (sia essa cartacea oppure on line), o attraverso la radio o la televisione, i risultati ottenuti non sembrano esaltanti in quanto paiono semplicemente alimentare uno degli aspetti più deteriori dell’animo umano, ovvero quello della curiosità vissuta ai livelli più patologici.
Poco male se nella vicenda di Sarah Scazzi, dei tre capisaldi – sangue, sesso e soldi – (starei per chiamarli assiomi) su cui fonda la cronaca più spietata che non si ferma davanti a nulla e nessuno, fino a rivoltare come un calzino fatti, persone e personaggi, manca il terzo elemento. Di sangue e di sesso ce n’è a sufficienza, per cui non è difficile offrire ad un pubblico morbosamente attaccato al video o all’articolo su qualsiasi organo di stampa, trasmissioni e servizi inerenti approfondimenti in itinere e aggiornamenti in diretta ad ogni utente che, seduto in poltrona, segue le varie possibili ricostruzioni, magari tentando di anticipare il lavoro degli inquirenti circa la ricostruzione dei fatti e l’attribuzione delle responsabilità.
Un vero tritacarne mediatico amplificato al solo scopo di fare audience che a sua volta serve soltanto ad attirare pubblicità a mille prodotti commerciali il che contribuisce ad elevare il budget del conduttore della trasmissione che gareggia col suo omologo dell’emittente concorrente. Alla fine l’utente si ritrova frastornato e tanti di costoro anche un poco nauseati. Pare che i media rincorrono su un terreno per loro improprio l’evolversi giudiziario dei protagonisti della triste vicenda facendola quasi apparire come un qualsiasi fatto di cronaca che non ha nulla di straordinariamente negativo, bensì come un evento pressoché “normale”. Ed è proprio questo l’aspetto più negativo del ruolo dei mezzi di comunicazione di massa che, inconsapevolmente e involontariamente, si trasformano da educatori e portatori di conoscenza, semplicemente in alimentatori di una cultura della violenza, del macabro e della perversione.
D’altronde oggi il fenomeno del mostro sbattuto in prima pagina, è giocoforza ammetterlo, fa ancor più sensazione proprio grazie alla diffusione capillare dei mezzi di comunicazione, sebbene anche in passato vicende tragiche e pruriginose sono state oggetto di una morbosa attenzione. I delitti passionali, gli avvenimenti tragici in genere, attirano un po’ tutti e tutti ritengono di essere in grado di “dire la propria”, cercando di spiegare, di giustificare, di condannare. Succede un po’ come quando si tratta di formare la rosa di nomi dei calciatori che partono per i mondiali. Ogni italiano si sente di essere il miglior Commissario Tecnico, ma nessuno si accorge di essere semplicemente portatore delle proprie conoscenze, convinzioni, pregiudizi e preconcetti.
Tornando al tema che ci siamo dati e a proposito della cronaca giornalistica fondata sulle “tre esse”, si tratta di un facile consenso che si ottiene a buon mercato. Da un giornalismo più responsabile ci si potrebbe attendere un comportamento meno invasivo. In certo qual modo più rispettoso della privacy e del dolore, non dimenticando che si può fare del buon giornalismo non solo e non tanto seguendo i gusti del pubblico, ma anche e principalmente educando il pubblico.
In questo senso, un comportamento altrettanto sbagliato è quello assunto dal sindaco di Avetrana che ha inteso sbarrare le strade ed i luoghi teatro della tragedia, per impedire l’accesso ai pullman turistici, ivi attirati come le mosche dal miele, dimenticando che si contribuisce così ad accrescere la morbosa curiosità di un sempre più vasto pubblico che si comporta come quel bambino a cui si vieta l’accesso alla marmellata. Si entra così in un circolo vizioso senza fine che sarebbe bene circoscrivere limitandosi a riportare con giornalistica sobrietà, i soli fatti per come avvenuti, proprio in ragione della loro delicatezza nel rispetto delle persone coinvolte, evitando di impiantare scenografici processi intervallati da interruzioni pubblicitarie.
D’altra parte non mi pare che il fenomeno sia semplicisticamente liquidabile addossando interamente alla stampa e al giornalismo in genere colpe che non hanno. In questo senso il giornalismo non fa altro che offrire un prodotto largamente richiesto. Bisognerebbe, pertanto, indagare anche sul perché il pubblico si appassiona a vicende di nera tanto più quanto più eclatanti sono i fatti accaduti.
Non è del tutto da escludere che una introspettiva nel segreto della propria coscienza, porti tante persone dai comportamenti esteriori abitualmente più che normali, ad avere paura di trovarsi in una situazione analoga, sia come vittima che come carnefice. Ogni sicurezza costruita nel corso di una vita appare all’improvviso ondeggiare su infide sabbie mobili che potrebbero segnarne la fine. Ed è proprio la normalità a fare paura, quella normalità a lungo ostentata che improvvisamente, senza un preciso calcolo temporale, si trasforma in tragedia.
Poi gli eventi sfuggono ad ogni controllo razionale e paiono svolgersi al di fuori della volontà di ognuno dei protagonisti, anche se qualcuno conserva un barlume di lucidità che gli permette di crearsi alibi più o meno attendibili. Allora la trama si ingarbuglia e gli inquirenti faticano a discernere il vero dal falso. Anche per questo sarebbe opportuno che i media facessero un piccolo passo indietro evitando la ricerca dello scoop a tutti i costi.
Ma tutti sappiamo che non è così, purtroppo. In proposito mi torna in mente la direttiva che dovevo seguire da cronista: La notizia, intanto può considerarsi tale in quanto è una cattiva notizia e come tale si guadagna l’apertura a tutta pagina e magari anche il richiamo in prima.
Oggi, più prosaicamente, quantunque tutto parta dalla volontà tipicamente giornalistica di offrire un servizio agli utenti (significativo in proposito il concetto tutto giornalistico del “diritto di cronaca”), attraverso la stampa (sia essa cartacea oppure on line), o attraverso la radio o la televisione, i risultati ottenuti non sembrano esaltanti in quanto paiono semplicemente alimentare uno degli aspetti più deteriori dell’animo umano, ovvero quello della curiosità vissuta ai livelli più patologici.
Poco male se nella vicenda di Sarah Scazzi, dei tre capisaldi – sangue, sesso e soldi – (starei per chiamarli assiomi) su cui fonda la cronaca più spietata che non si ferma davanti a nulla e nessuno, fino a rivoltare come un calzino fatti, persone e personaggi, manca il terzo elemento. Di sangue e di sesso ce n’è a sufficienza, per cui non è difficile offrire ad un pubblico morbosamente attaccato al video o all’articolo su qualsiasi organo di stampa, trasmissioni e servizi inerenti approfondimenti in itinere e aggiornamenti in diretta ad ogni utente che, seduto in poltrona, segue le varie possibili ricostruzioni, magari tentando di anticipare il lavoro degli inquirenti circa la ricostruzione dei fatti e l’attribuzione delle responsabilità.
Un vero tritacarne mediatico amplificato al solo scopo di fare audience che a sua volta serve soltanto ad attirare pubblicità a mille prodotti commerciali il che contribuisce ad elevare il budget del conduttore della trasmissione che gareggia col suo omologo dell’emittente concorrente. Alla fine l’utente si ritrova frastornato e tanti di costoro anche un poco nauseati. Pare che i media rincorrono su un terreno per loro improprio l’evolversi giudiziario dei protagonisti della triste vicenda facendola quasi apparire come un qualsiasi fatto di cronaca che non ha nulla di straordinariamente negativo, bensì come un evento pressoché “normale”. Ed è proprio questo l’aspetto più negativo del ruolo dei mezzi di comunicazione di massa che, inconsapevolmente e involontariamente, si trasformano da educatori e portatori di conoscenza, semplicemente in alimentatori di una cultura della violenza, del macabro e della perversione.
D’altronde oggi il fenomeno del mostro sbattuto in prima pagina, è giocoforza ammetterlo, fa ancor più sensazione proprio grazie alla diffusione capillare dei mezzi di comunicazione, sebbene anche in passato vicende tragiche e pruriginose sono state oggetto di una morbosa attenzione. I delitti passionali, gli avvenimenti tragici in genere, attirano un po’ tutti e tutti ritengono di essere in grado di “dire la propria”, cercando di spiegare, di giustificare, di condannare. Succede un po’ come quando si tratta di formare la rosa di nomi dei calciatori che partono per i mondiali. Ogni italiano si sente di essere il miglior Commissario Tecnico, ma nessuno si accorge di essere semplicemente portatore delle proprie conoscenze, convinzioni, pregiudizi e preconcetti.
Tornando al tema che ci siamo dati e a proposito della cronaca giornalistica fondata sulle “tre esse”, si tratta di un facile consenso che si ottiene a buon mercato. Da un giornalismo più responsabile ci si potrebbe attendere un comportamento meno invasivo. In certo qual modo più rispettoso della privacy e del dolore, non dimenticando che si può fare del buon giornalismo non solo e non tanto seguendo i gusti del pubblico, ma anche e principalmente educando il pubblico.
In questo senso, un comportamento altrettanto sbagliato è quello assunto dal sindaco di Avetrana che ha inteso sbarrare le strade ed i luoghi teatro della tragedia, per impedire l’accesso ai pullman turistici, ivi attirati come le mosche dal miele, dimenticando che si contribuisce così ad accrescere la morbosa curiosità di un sempre più vasto pubblico che si comporta come quel bambino a cui si vieta l’accesso alla marmellata. Si entra così in un circolo vizioso senza fine che sarebbe bene circoscrivere limitandosi a riportare con giornalistica sobrietà, i soli fatti per come avvenuti, proprio in ragione della loro delicatezza nel rispetto delle persone coinvolte, evitando di impiantare scenografici processi intervallati da interruzioni pubblicitarie.
D’altra parte non mi pare che il fenomeno sia semplicisticamente liquidabile addossando interamente alla stampa e al giornalismo in genere colpe che non hanno. In questo senso il giornalismo non fa altro che offrire un prodotto largamente richiesto. Bisognerebbe, pertanto, indagare anche sul perché il pubblico si appassiona a vicende di nera tanto più quanto più eclatanti sono i fatti accaduti.
Non è del tutto da escludere che una introspettiva nel segreto della propria coscienza, porti tante persone dai comportamenti esteriori abitualmente più che normali, ad avere paura di trovarsi in una situazione analoga, sia come vittima che come carnefice. Ogni sicurezza costruita nel corso di una vita appare all’improvviso ondeggiare su infide sabbie mobili che potrebbero segnarne la fine. Ed è proprio la normalità a fare paura, quella normalità a lungo ostentata che improvvisamente, senza un preciso calcolo temporale, si trasforma in tragedia.
Poi gli eventi sfuggono ad ogni controllo razionale e paiono svolgersi al di fuori della volontà di ognuno dei protagonisti, anche se qualcuno conserva un barlume di lucidità che gli permette di crearsi alibi più o meno attendibili. Allora la trama si ingarbuglia e gli inquirenti faticano a discernere il vero dal falso. Anche per questo sarebbe opportuno che i media facessero un piccolo passo indietro evitando la ricerca dello scoop a tutti i costi.
Ma tutti sappiamo che non è così, purtroppo. In proposito mi torna in mente la direttiva che dovevo seguire da cronista: La notizia, intanto può considerarsi tale in quanto è una cattiva notizia e come tale si guadagna l’apertura a tutta pagina e magari anche il richiamo in prima.