Fare di un acronimo un nuovo vocabolo non è cosa difficile per la lingua italiana. Ogni sigla si conquista abbastanza facilmente il proprio spazio se non proprio nella Treccani, almeno nei tanti vocabolari che spesso fanno da avanguardia nell’evoluzione linguistica ed espressiva della parola.
Esempio eclatante in questo senso è l’Invalsi (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema di Istruzione). Entrato in vigore nel 1999 col nuovo sistema di valutazione scolastica, l’Istituto, dotato di personalità giuridica, si è presto reso riconoscibile con un acronimo.
Esso gestisce, in modo particolare, il Sistema Nazionale di Valutazione, studia le cause della dispersione scolastica, predispone i testi della prova scritta a livello nazionale, relativi all’esame di Stato cui sono sottoposti gli alunni della scuola secondaria di primo grado. Ma provvede anche alla predisposizione di modelli per l’elaborazione della terza prova riservata agli alunni della secondaria superiore secondo criteri comparabili a livello internazionale, e molto altro ancora.
Ciò nonostante, sia in ambito prettamente scolastico che in sede linguistica, l’Invalsi resta un acronimo ancora poco noto e quindi solo un lemma sulla carta riferito ad una delle tante innovazioni con le quali la scuola italiana è stata chiamata a confrontarsi in questi ultimi tempi, secondo le mire e le ambizioni del ministro e del governo di turno, tutti – costoro – portatori di rivoluzioni normative, didattiche e comportamentali di per se interessanti, ma quasi sempre irrealizzabili in quanto non accompagnate dai necessari tempi tecnici e da sufficienti risorse economiche. Normative che sanno sempre di campagna elettorale, che talvolta inducono a sperperare i già esigui finanziamenti in favore di una limitata e - (per fortuna) - minoritaria platea di spregiudicati ed opportunisti docenti, più attenti ad arrotondare i sia pur miseri emolumenti, piuttosto che disposti a confrontarsi con le sfide culturali, pedagogiche e didattiche lanciate da una società in continua evoluzione.
E’ questo credo sia il vero male della nostra scuola di oggi: essere più protesa nell’assicurare un posto di lavoro per sopravvivere, che offrire un servizio di qualità basato su solidi presupposti pedagogici. Salvo encomiabili nicchie che si guadagnano meritatamente la citazione nelle riviste specializzate, in linea di massima la scuola italiana è pressoché inesorabilmente scivolata in una scuola facile per tutti, che privilegia attività di carattere estemporaneo e occasionale non sempre inserite in un organico progetto di offerta formativa. Attività prive di un passaggio fondamentale fra i quali resta di primaria importanza la valutazione dei risultati conseguiti da parte dei singoli alunni. Un’operazione, invero, abbastanza difficoltosa, trattandosi quasi sempre di attività di carattere sociale e artistico che fanno la gioia dei diretti interessati oltre che di vaste categorie di genitori nella spasmodica ricerca di visibilità per i propri rampolli sottoposti a vere e proprie performance che, sicuramente rivestono anche carattere educativo, ma che non sono caratterizzanti per ogni istituzione scolastica. Una scuola – questa – che, così facendo, sostituisce i programmi con i progetti, sperando così di essere al passo coi tempi, mentre non si accorge di andare al rimorchio di una società che privilegia l’apparire sull’essere, con tutto quello che ne consegue.
Con l’avvicinarsi della fine dell’anno scolastico, tali attività prendono addirittura il sopravvento, determinando di fatto, a volte, anche la sua fine anticipata. A far restare tutti con i piedi per terra ci pensano, a modo loro le prove d’esame predisposte dall’Invalsi, un autentico alieno per la scuola italiana che costringe tutti a riprendere contatto con la realtà. E la realtà della scuola italiana, non è certo la più felice nel panorama europeo.
Lungi dal credere che la scuola in quanto tale si possa ridurre a ciò che si fa stando seduti in un banco sistemato in un’aula di un edificio che campeggia in uno dei posti più o meno centrali di un agglomerato urbano affumicato dagli scarichi inquinanti di vario genere, v’è da dire che la scuola italiana non naviga in buone acque, considerata la bocciatura decretata dall’Ocse (altro acronimo che sta per Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico).
In base ai dati riferiti al 2006 (ma nel frattempo nulla è migliorato) il nostro sistema educativo risulta eccessivamente costoso se paragonato ai livelli di istruzione raggiunti. Istruzione post secondaria e Università sfornano diplomati e laureati che non reggono il confronto con i pari grado del resto d’Europa. L’Italia occupa il penultimo posto per numero di laureati: appena l’11%. Dopo di noi solo la Turchia e meglio di noi stanno Cile e Messico.
Le cose non cambiano di molto se si considerano i soli diplomati. Col 48% l’Italia occupa gli ultimi posti della classifica a fronte di una media Ocse che si aggira sui 67 diplomati ogni 100 studenti. E’ chiaro che la scuola italiana non regge il confronto con le omologhe europee. Eppure dal rapporto Ocse emerge che l’Italia spende più degli altri Paesi, che le classi sono mediamente meno affollate rispetto alle altre realtà europee ed extraeuropee (18 alunni per classe in Italia contro i 21,5 della media Ocse), che il numero medio di ore di lezione rivolte agli alunni è più alto che negli altri paesi membri e il rapporto alunni insegnanti è favorevole: 11 alunni per insegnante nelle scuole superiori, contro i 13,3 della media Ocse. Nei 13 anni del percorso scolastico dalle elementari alle superiori, l’Italia spende 100 mila dollari per alunno, 23 mila in più della media europea che si ferma a 77 mila dollari per studente. In tutto questo vi è un solo punto debole che fa crollare l’intero sistema scolastico italiano: Gli insegnanti italiani percepiscono salari decisamente bassi rispetto ai loro colleghi europei. Per arrivare al massimo dello stipendio devono stare in cattedra ben 35 anni, contro i 25 della media Ue. In Italia il tempo dedicato alle lezioni con gli alunni di scuola Media è di 33 settimane (674 ore l'anno). Nell'Unione europea, ove le vacanze sono distribuite nell’arco dell’intero anno solare, le settimane salgono a 37 e le ore di lezione a 1.019. E ancora, i docenti italiani sono tra i più anziani in assoluto: solo 1 su mille ha meno di 30 anni. E, per finire i computer: 77 in media in ogni scuola italiana, contro i 115 dei Paesi Ocse.
Le prove Invalsi restano una cattedrale nel deserto e nuove ricette miracolose capaci di far risalire la china alla scuola italiana, non si vedono all’orizzonte. Anche perché - e non certo perché lo scrivo io - pedagogisti del livello di Giovanni Gentile, autore ai suoi tempi di una riforma rimasta per alcuni aspetti a tutt’oggi insuperata, non se ne vedono tanti in giro.

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