Navanteri

La vita, si sa, non ci esenta da improvvisi quanto dolorosi colpi di stiletto che trapassano impietosi il nostro personale giaco costituito da affetti, ricordi, convenzioni e convinzioni che, nel corso del tempo, con pazienza e spirito di autoconservazione, accumuliamo per non soccombere dinanzi all’inevitabile inverno di certi giorni. 


Occorre un antidoto per attenuare gli effetti di questa diabolica trappola esistenziale e, dosando coscienziosamente gli elementi contenuti nel crogiuolo delle proprie esperienze culturali, Gaetano Santandrea ne distilla uno che assume corpo di poesia.
Per mezzo dei versi egli si difende, con spirito da combattente di trincea e coraggio leonino, dal torpore della società e dalle illusioni che il tempo e le umane speranze inevitabilmente generano.
Tuttavia, la grinta del poeta non è esente dalla sensibilità che, sebbene apparentemente osteggiata da una scrittura che si presenta come «rosario di azzardi e pezzi di vetro» (Di schicchere falangi), traspare in filigrana in quasi tutti i componimenti de L’ultimo evviva.
Ne deriva una poesia aspra e salutare ‒ del resto, il vecchio Lucrezio continua ad insegnarci l’importanza di accostare il miele all’amaro assenzio ‒ in grado di scavare animi e realtà restituendoci quei suoni accuratamente definiti «petrosi» nell’incisiva postfazione di Giuseppe Lo Castro.
Le immagini poetiche si susseguono abbracciando ampi e complessi ‒ e, spesso, contraddittori ‒ aspetti della vita, assecondando temperie diverse che spaziano dalle abilità calcistiche di Asprilla e Recoba alle note di Mina e Celentano, passando per le sinuose esibizioni di Heather Parisi, le devastate rose sanremesi di Blanco e le dolorosissime immagini della strage di Cutro.
Insomma, la poesia di Santandrea ritaglia spazi per le nostalgie, gli amori, le riflessioni, le parole e gli innumerevoli mondi che da esse possono scaturire.
Aleggia comunque tra le pagine un sottile sentore di pessimismo ‒ «Balenano spiragli ma tutti danno sul vuoto» (Dovremmo amare questa vita metriquadra) ‒ che sfocia in una sete di infinito incapace di estinguersi e, in particolari momenti, sfiorante il parossismo: «La domenica sera non v’è acqua che basti ai deserti d’ognuno» (Lettera morta di una precisa vaghezza).
I versi di Santandrea sono dunque ponderati e sofferti, mai lasciati al caso e scevri da condizionamenti modaioli o pregiudizi. Si presentano come parzialmente sperimentali e lasciano intravedere quasi un ventennio di pratica poetica ‒ benché è opportuno precisare che L’ultimo evviva è un’opera prima ‒ costellato da numerose letture e influenze riscontrabili ‒ si intravedono, in proposito, echi di un Dario Bellezza e di un Pierluigi Cappello ‒ agli occhi dei lettori più attenti.
La poesia spesso è Getsemani, luogo di patimento e di passione, vano tentativo di abbracciare cose e persone che svaniscono in rivoli di nulla, ma è altresì efficace strumento per colmare lontananze ‒ spesso involontarie ‒ e attutire il desiderio di essere in un non meglio precisato altrove ‒ «il pensiero è una forma sedativa della distanza» (Sversa adespoto il sangue) ‒ a cui fatichiamo ad attribuire un’identità, consapevoli del fatto che è proprio «l’azzardo d’un nome il coltello ch’uccide» (Una sete d’occhi nuvola bianca farsi sera).
L’ultimo evviva è pertanto un libro di resistenza, un invito a diventare il dantesco «tetragono ai colpi di ventura» ed il suo autore, attraverso il dono poetico, ci ricorda che, nonostante tutto e tutti, vi è ancora desiderio di bellezza.
Tanto basta per farcene amare la lettura.

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