Navanteri

Benché breriano sfegatato, una colpa gravava su di me: quella di ignorare completamente l’esistenza di un libello intitolato Introduzione alla vita saggia che lo scrittore di San Zenone Po aveva licenziato nell’ormai lontano 1974.
Un caro amico ‒ breriano anch’egli fino alle midolla ‒ me ne fece gradito dono in occasione della presentazione di un suo libro di versi e il Caso ‒ dotato dell’imprevedibilità dei matti ‒ dispose il mio incontro con questo insolito testo di Brera in un piovoso pomeriggio autunnale. 

Bnl


Ristampato recentemente per i tipi de Il Mulino, con prefazione del poliedrico Carlo Verdone e postfazione di Paolo Brera ‒ figlio di Gianni e, a quanto pare, degno erede di penna ‒, il volumetto (poco più di settanta pagine son sufficienti per chi racconta in bello stile, ma senza fronzoli) raccoglie argute meditazioni sul tema dell’ansia, compagna dell’umanità dai tempi delle caverne a quelli dei grattacieli.
Spogliatosi delle vesti di giornalista sportivo e abbandonate altresì quelle del romanziere, l’autore si sofferma con tratto ironico e colto sulle tappe salienti che hanno condotto l’Uomo a scoprire il concetto di anima e sull’inevitabile e dolorosa conseguenza di una simile scoperta: lo sviluppo di uno stato ansiogeno derivato dal rapporto con l’ambiente circostante e dalle aspettative legate ad un futuro incerto per definizione.
Con la saggezza di chi ha accumulato esperienze amando la vita e assaporandone lecitamente i piaceri ‒ son note, in proposito, le sue passioni enogastronomiche consumate in barba ai picchi glicemici‒, Brera costruisce una personale filosofia sull’argomento, bandendo astruse teorizzazioni e conservando un sano buonsenso paesano che si traduce in un’immagine antica ‒ ma significativa ‒ in grado di condensare il messaggio principale del libro: «Le mie ansie, per dirla schietta, oscillano fra il timore che si spenga [la fiammella dell’anima, n.d.a.] e la speranza che arda troppo».
Di tempra marcatamente oraziana, tale considerazione si traduce in un elogio dell’aurea mediocritas e nell’invito a saper leggere gli eventi per coglierne l’attimo giusto ‒ ritorna il carpe diem del poeta di Venosa ‒, affinché si possa «scegliere l’istante buono per mettere sottovento la preziosa fiammella dell’anima» ed evitare che essa si spenga tramutando un’ansia fisiologica e costruttiva in nera e devastante depressione.
Quando la via filosofica alla saggezza e all’equilibrio risulta insufficiente, Brera non disdegna di metter mano ad un «astuccio di solido cartoncino» per cavarne una compressina che «fuoriesce con un grato scricchiolio di caramella scartocciata». Lo scrupolo lo induce, molto spesso, a dividere quell’unico milligrammo farmaceutico in due porzioni ridotte a tal punto da divenire quasi un placebo, ma capaci di dar improvvisa sensazione di ritrovata salute.
L’effetto benefico scaturisce in realtà dall’inganno di se stessi più che dalla sostanza curativa e l’autore ne dà testimonianza riportando due gustosi aneddoti che, a ben vedere, paiono quasi boccacceschi: nel primo, un verboso avvocato afflitto da terribile emicrania è risanato da una pillola per il diabete che Brera, da malizioso buontempone, offre come infallibile rimedio per il mal di capo; nel secondo, l’autore ricorda l’effetto delle cialde purgative militari propinate ad un rumoroso proprietario di casa sopraffatto da un accesso di tosse tubercolotica immediatamente sedata da quell’inappropriato rimedio.
Tra il serio e il faceto, Brera ‒ come è lecito per ogni scrittore ‒ «forza un po’ i limiti della sua esperienza», restituendoci una deliziosa riflessione spirituale e umana attraverso pagine che ben si accompagnano ai primi rigori di stagione e ad un immancabile vino da meditazione.

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