Man mano che il tempo, sicario silenzioso, si consuma e ci fagocita, noi esseri umani, fragili nel corpo e immortali nel pensiero, tendiamo inevitabilmente alla semplificazione, sgravandoci dagli orpelli, dalle superficialità, dai fatti e dalle cose che non contano e ci impediscono di cogliere l’essenza di una vita che, a ben vedere, si riduce agli «sparuti incostanti sprazzi di bellezza» di cui parlava, anni addietro, il sagace Paolo Sorrentino.
Questo processo di sintesi estrema, a tratti brutale ma necessario, ‒ sarebbe, ahimè, atroce e comico imbattersi in un centenario con i vizi e i vezzi d’un diciottenne ‒ degenera esattamente nel suo opposto per quanto concerne la sfera del ricordo, dal momento che un oggetto incrociato per caso, un profumo, un suono o un sapore possono evocare innumerevoli e dettagliate reminiscenze del passato come avvenne all’acuto e verboso Marcel Proust (1871-1922) che, pur correndo il rischio di sfinire il lettore, imbastì un intero romanzo a partire dalle rievocazioni scaturite dal gusto di una fragrante madeleine inzuppata nel tè.
La voce roca e inconfondibile di Sandro Ciotti (1928-2003), sebbene non più udibile dal vivo, sortisce il medesimo effetto dell’appena citato pasticcino francese, richiamando alla mente una miriade di visioni afferenti ad un mondo sportivo e culturale che non è più e che, tutto sommato, fu meritato ristoro per un’Italia laboriosa e ancora capace di sognare un futuro roseo per le generazioni a venire.
Romano, borghese, versatile e dotto, Ciotti scandì la narrazione di epiche imprese agonistiche, consegnando, per mezzo di indimenticabili radiocronache, immagini plastiche che, rapite all’etere da gracchianti radioline, consentirono di vedere in assenza le prodezze atletiche delle Olimpiadi, le immani fatiche del Giro d’Italia e del Tour de France e le concitate fasi di gioco di un calcio che, precisamente in quegli anni, si consolidò a tal punto da divenire lo sport nazionale.
Tuttavia, conscio del fatto che «[…] le parole dette in un microfono sono scritte sull’acqua», Ciotti affidò la propria biografia ad un agile volumetto intitolato Quarant’anni di parole in cui, oltre alla riconoscente affezione verso il linguaggio ‒ strumento cardine della professione radiofonica ‒, riversò le speranze, i timori, i desideri e i rimpianti di un’esistenza in un raro e pregevole equilibrio sfuggente tanto alle sirene della megalomania quanto alle ipocrisie della falsa modestia.
Sfogliandone le pagine, si delinea con chiarezza la figura di un uomo estremamente colto, seguace delle orme paterne in ambito giornalistico e non esente dalle influenze di una tradizione romanesca verace trasmessagli sin da giovanissimo da Trilussa (1871-1950), suo padrino di battesimo e mentore.
Non c’è pertanto da stupirsi se le lunghe dirette di Ciotti furono impreziosite da gradevolissime perle espressive lontane anni luce dalle piatte e asettiche radiocronache odierne, figlie di un giornalismo ormai standardizzato e mediocre ‒ sottomesso alla legge dei social ‒ che, in nome di una presunta oggettività, sacrifica sull’altare delle banalità gli aspetti più emozionali e i fregi linguistici che servono a dar loro corpo.
A dimostrazione delle superiori capacità comunicative del nostro autore ‒ indiscusso campione nell’entrare in immediata empatia con gli ascoltatori sintonizzati, a prescindere da qualsivoglia differenza educativa e intellettuale ‒ è sufficiente riportare tre degli innumerevoli ritratti creati sapientemente attraverso le parole per descrivere la temperie dello stadio e delle compagini calcistiche: «A Bari la giornata è calda e languida come gli occhi di Ornella Muti»; «Il Torino, la cui parabola ha ospitato ferite crudeli e successi epici e che il destino ha accarezzato come un fiore e trafitto come una lama saracena […]» (con evidente riferimento alla tragedia di Superga del 1949); «Milano si è organizzata per ricordarci che dopotutto l’inverno esiste; e infatti il cielo è coperto quasi quanto il Napoli, che attacca senza mai sguarnire la difesa, e cade quel tipo di pioggia leggera e gelida il cui romanticismo francamente ci è sempre sfuggito».
È d’obbligo comunque precisare che il buon Sandro, sebbene professionista inarrivabile, fu in ottima compagnia, dacché ‒ per uno strano scherzo del destino o, più prosaicamente, a causa di un’armonica combinazione di metodo, rigore e cultura, che, allo stato attuale, risulta latitante ‒ ebbe come sodali d’avventure radiofoniche personaggi del calibro di Nando Martellini, Enrico Ameri, Beppe Viola, Massimo Valentini, Italo Moretti, Claudio Ferretti e Alfredo Provenzali.
Quarant’anni di parole ci svela altresì un volto inedito di Ciotti stranamente avulso dall’universo del giornalismo sportivo e indirizzato all’ambito musicale.
Pochi sanno che lo scrittore romano accompagnò de facto la nascita della musica leggera italiana, seguendo in veste di cronista ben quaranta edizioni del Festival di Sanremo (dal 1957 al 1997), stringendo rapporti di intensa amicizia con il gotha del panorama artistico del Belpaese e dedicandosi alla composizione di due testi ‒ Veronica, scritta assieme a Dario Fo, e Volo ‒ interpretati rispettivamente da Enzo Jannacci e Peppino di Capri.
Ciotti profuse inoltre la propria professionalità ‒ frutto di una riuscita mistura di sapere e arte ‒ anche nel contesto cinematografico, curando una fortunata rubrica radiofonica intitolata Ciak che divenne, ben presto, uno spazio di confronto tra le sensibilità diverse di attori e registi di grido che resero Cinecittà il luogo ideale per alimentare i miraggi degli italiani del dopoguerra.
La voce arrochita di Ciotti fu dunque, a pieno titolo, la voce della domenica, ma anche il tratto distintivo di un intellettuale poliedrico che è bene non abbandonare all’oblio, se è vera la saggia esortazione di Vittorio Alfieri (1749-1803) secondo cui «il dire altamente alte cose è un farle in gran parte».
In memoria di Costantino Bellusci, intellettuale di valore e amico sorridente…
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