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Più che rappresentare, come molti osservatori ritengono, l’inizio della rivincita politica contro Donald Trump, con l’elezione di Zohran Mamdani a Sindaco di New York (con oltre un milione di preferenze), nonché le vittorie nette in New Jersey e Virginia, è partita, invece, la guerra di successione nel partito democratico statunitense. 

Certamente il malcontento verso l’inquilino della Casa Bianca, incapace di arrestare in questi mesi le gravi problematiche economiche ed, in particolare, il caro vita fuori controllo, oltre che artefice di uno stato di permanente scontro tra il governo centrale e le istituzioni periferiche (vedi programma di smantellamento degli apparati statali ideato da Elon Musk e Russell Vought) ha contribuito sia alla schiacciante vittoria di due governatrici democratiche che al trionfo del primo sindaco musulmano nella storia della Grande Mela. 
Epperò, il peso dei risultati di martedì notte non vanno oltremisura enfatizzati in funzione meramente anti-trumpiana, atteso che riguardano, comunque, competizioni elettorali in Stati (e in una città) che storicamente appartengono al partito democratico come in Italia le regioni rosse (Toscana ed Emilia Romagna).
Tutto sommato, infatti, Mamdani ha vinto soprattutto contro l’establishment del Partito Democratico, che gli preferiva Andrew Cuomo, ex governatore dello Stato di New York, componente di una delle famiglie politiche più potenti degli Stati Uniti.
Chiunque prevarrà nel partito dell’asinello (Mamdani, sindaco di New York, Gavin Newsom, Governatore della California o quant’altri) dovrà puntare su una piattaforma politico-programmatica chiara (attualmente del tutto assente) che vada nella direzione di invertire quel processo di impoverimento della società americana, il vero tema (insoluto), che ha consentito a Trump di vincere le precedenti elezioni presidenziali e a Mamdani quelle newyorchesi con un programma che sembra più anticapitalista che socialista.
Ancora più specificamente tutta la partita si gioca sulla conquista della middle classe o ceto medio, il reale malato degli States, talmente depresso che non crede più nel “sogno americano”, ritenendo che il sistema neoliberista, per come evolutosi negli ultimi 40 anni, sebbene assicuri grande produttività e ricchezza, lasci, soltanto le briciole ai lavoratori americani, i quali non sono in grado, ormai di condurre una vita dignitosa, per come tutti gli indicatori economici segnalano.
In effetti, nella maggior parte degli Stati Uniti anche i redditi intorno ai 40mila dollari sono insufficienti per mandare i figli all’università, i bambini in un asilo decente, permettersi una assicurazione sanitaria che consenta di affrontare un incidente o una malattia, pagare un affitto, tant’è, per esempio, che i newyorchesi (e non solo) sono in fuga dalla Grande Mela. 
Negli ultimi quattro anni quattro quartieri su cinque hanno visto diminuire il numero dei residenti: Manhattan ha perso ottantamila abitanti, Brooklyn più di 150 mila, il Bronx più di centomila e il Queens quasi 140 mila. 
A mettere in fuga i residenti sono soprattutto i prezzi degli affitti, considerato che in media per un appartamento al Queens ( e non a Manhattan) monolocale servono più di 3 mila dollari al mese. Una pizza con birra costa una quarantina di dollari, mentre internet tra i 150 e 200 euro al mese oppure per una cena di tre persone servono circa 220 dollari. Secondo un calcolo fatto da blogger locali, per vivere a New York e permettersi qualche lusso serve uno stipendio annuo di 120 mila dollari, 10 mila al mese. 
In tale quadro, i successi elettorali di Trump e Mamdani, dunque, non sono figli della fine del capitalismo (il quale, non essendo un’ideologia, ha sempre avuto la capacità nella storia di reinventarsi), epperò esprimono entrambi un segnale evidente di un allontanamento (o rigetto) da quel modello capitalistico, sviluppatosi con Ronald Reagan, che ancora non è stato sostituito, da un’altra forma alternativa, né tanto meno, al momento si intuiscono i tratti peculiari. 
Tale fase di indeterminatezza non fa che generare uno stato di instabilità ed irrequietezza i cui riflessi si riverberano nelle complesse e caotiche relazioni internazionali globali.

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