Giorgia Meloni, sebbene i sondaggi confermino uno stabile consenso personale (44%), oltre che un gradimento pari al 28% per il suo partito, dovrebbe comunque preoccuparsi del proprio futuro politico, perché in Italia tutto è lecito tranne che avere successo nella vita o modificare la Costituzione del 1947.
Quindi, va bene il fatto che rappresenti la prima donna premier del Bel Paese, che esprima, al momento, il terzo esecutivo più longevo della storia repubblicana o che intrattenga un “rapporto speciale” con Trump, però avere avuto l’impudenza di procedere ad emendare la Costituzione più bella del mondo è davvero troppo.
Una cosa del genere non passerà senza conseguenze politiche perché ogni tentativo di riformare la “Magna Carta” della Repubblica è stato sempre affossato inesorabilmente dalla forte opposizione dello storico “partito del No”, formato da un vasto e composito fronte trasversale, reazionario e maggioritario, espressione di una mera convergenza di complessi interessi (grandi e piccoli), finalizzati al mantenimento degli equilibri di potere sussistenti nel paese, stroncando ogni legittima aspettativa di aggiornare l’assetto istituzionale italiano.
La storia docet: guai a chi tocchi la Costituzione!
Numerosi sono gli esempi di rovina politica (o fine della carriera), dopo aver avviato stagioni riformatrici di revisione delle istituzioni, come quella del conferenziere Matteo Renzi, del viticoltore Massimo D’Alema o dello scomparso “esule di Hammamet”.
Questa volta la reazione del “Partito del No” sarà ancora più dura del solito i cui primi segnali sono già percepibili, atteso che la riforma tocca direttamente l’intoccabile casta dei magistrati, un potere (altro che ordine) dello Stato ovvero la principale categoria che ha sempre garantito la difesa dello status quo del sistema italiano.
Per cui la scelta di aver accelerato l’approvazione della “riforma Nordio” sulla separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, il sorteggio e la costituzione dell’Alta Corte di Giustizia, in modo del tutto frettoloso, appare un vero e proprio gratuito azzardo politico nell’ottica della tenuta dell’esecutivo, oltre che proiezione di esso, dopo le elezioni del 2027, che rischia per il centro - destra di pregiudicare la scelta dell’inquilino del Quirinale.
Di fatto la Meloni si giocherà tutto con il referendum prossimo in programma tra marzo ed aprile, come è avvenuto nel 2016 per Matteo Renzi, essendo lo schema lo stesso, ad eccezione del fatto (circostanza non del tutto secondaria) che il contesto politico è totalmente mutato, nonché soprattutto per il giudizio negativo dei cittadini italiani che avrebbero sul servizio giustizia.
In ogni caso, non è detto che l’Italia, pur collocandosi in 27ª posizione, preceduta da tutti i principali Paesi sviluppati nella classifica mondiale in materia di giustizia (redatta dall’associazione World Justice Project), opterà per la riforma, essendo essa culturalmente refrattaria ad ogni cambiamento e fiduciosa nel proprio immobilismo.
In fondo si è sempre il paese del Gattopardo.
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