Navanteri

Questo autunno volge sempre più verso l’inverno, in terra di Lombardia il sole ci ha accompagnati, rendendo più visibile, in qualche modo esaltandola, la suggestiva bellezza del foliage, però le temperature si sono abbassate.

E basta evocarlo questo spettacolo, che si ripete di anno in anno, per assaporarne ogni sfumatura: dal rumore, quel lento frusciare, che pure ricorda un addio, ai colori: fra rosso e giallo, esplodendo nell’arancione, agli alberi, che si rivestono di una diversa primavera, eppure nell’aria, in quella mattutina e serale, si preannunciano accenni del maestoso inverno. Nelle domeniche, lente e pomeridiane, poetiche e provinciali, l’odore dei camini, della fuliggine, segna, in qualche modo, con un po' di anticipo, il passaggio da una stagione all’altra. L’urgenza poetica che in me si palesa durante questo passaggio, fogliame incluso, cede il passo ad altre urgenze: il cambio dell’armadio, così protratto, perché rapita da troppa poesia, “sian stati i libri o il mio provincialismo”, cantava Francesco Guccini, e perché conservo, data la mia prudenza, sempre, anche nella stagione primavera/estate qualche dolcevita e cardigan, l’eterno basco, jeans per tutte le stagioni, quel certo giubbotto e quel caro cappotto. È come se fosse il mio armadio sempre un po' a metà, ambiguo ed ambivalente, non prende posizione fra una stagione e l’altra, sempre ordinatissimo, però, ho una certa maestria in ciò. Sempre pronto a seguire, il mio armadio, adeguandosi, un raggio di sole o un’improvvisa nuvola. Sempre pronto per ogni occasione climatica, eppure è tempo di coprirsi bene, che quest’anno l’inverno sarà freddo a prescindere, e fra bustoni, pazienza e Califano come l’eco perduto di un ricordo, inizio il mio lavoro di riordino dell’armadio. E i maglioni e le gonne di lana a tubino un po' retrò, immensamente mie, prendono il posto di più leggeri out-fit, tutto si accomoda, ogni cosa ritrova la sua collocazione stagionale. Resistono camicie e magliette evergreen (e poi in classe fa caldo) e ritornano più soffici sciarpe e forse vintage, eternamente chic (radical?), pantaloni di velluto. E tutto, anche questa volta, ancora una volta, è compiuto. Ogni cosa, seguendo il ritmo delle stagioni, ritorna al suo posto, ogni cosa trova il suo legittimo spazio, e ciò che non lo trova, lo troverà in altra forma, in altro luogo, sarà un riciclo, come il costante riciclo della materia, dove tutto si armonizza. E ciò che resta, delle cose e nell’anima, è sempre un po' più profondo ed assurge a simbolo e memoria, come il cappotto più caro, nel senso di più prezioso. O come quel particolare jeans nel quale non solo sono rientrata ma… mi sta benissimo!!! Ed ancora l’attualissima e necessaria kefiah e tutto ciò che mi appartiene, a cui appartengo. E che mi sta bene! Perché fra le tante e più serie ed urgenti rivendicazioni rivendico il mio diritto alla vanità. Perché ancora una volta “non c’è niente di più profondo di ciò che sta in superficie” (Hegel). Perché in questa vita dalla quale non è esentato il dolore, gli strappi e gli addii, che se lacrime debbano essere lo siano con stile, ecco perché “detesto svenire in pubblico: non so cadere con grazia”, Marlene Dietrich, diva fa le dive, che pur di lacrime e stile ne sapeva qualcosa...

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