Domenica è sempre domenica, ma… “non odo augelli far festa”, in lontananza però mi giunge il suono di una campana, che rientra pienamente nel “cose che fanno la domenica”. Non è necessario avere un qualche credo religioso per riconoscere in questo suono i rituali di una provincia, la chiamata ad un evento corale, le abitudini che si perdono nella notte dei tempi; fra fede e poveri miti.
L’ancestralità e la poesia innata che vi è in questo suono, che è suono evocativo ed onomatopeico, richiama a sé, e ne diviene simbolo sonoro ed immaginifico, questo preciso giorno della settimana. Io non ho mai amato, forse già da bambina, questa cadenza settimanale; ne ho sempre però apprezzato la sua attesa: un eterno “Sabato del villaggio” è nel mio mondo ideale, il concetto più prossimo alla felicità. Le domeniche di settembre, poi, ve le raccomando: seduttive e subdole, come un/a amante impaziente, malinconiche e poetiche come un ricordo di un giorno al mare. Segnano, al contempo, il giorno della festa e la fine della sospensione statica, seppur l’estate è ancora in corso d’opera. Ha in sé, la domenica di settembre, come tutte la domeniche, il sentore del lunedì e in più l’annuncio dell’autunno e della ripresa. Evoca immagini di ombrelloni che si chiudono, in attesa di un’altra estate, del volo, semi-solitario, di un gabbiano, di un tormentone che riecheggia, di già un po' stonato e stonante. Eppure sono belle come solo l’evanescenza sa esserlo. Eppure sono preziose come può esserlo solo il ricordo. Alle domeniche di settembre per la loro fugace e decadente bellezza è concesso tutto. Non offrono né impegni né svaghi: scorrono, accompagnate dalle pagine di un libro e dall’acciottolio dei piatti, dal miagolare distratto di una gatta che passa sotto casa. Sorretta, questa domenica di settembre, da quattro righe buttate su un foglio. Apatiche e lente si perdono fra i se e i ma tipicamente settembrini, si sprecano negli armadi, alla ricerca di un maglioncino che il giorno fa tanto caldo, ma la sera l’aria si rinfresca e si ricerca tepore. Si consumano fra una passata di rossetto e una ritoccata al mascara: la mia vanità non va in vacanza. Si dilatano quando prendono la forma di un bacio, si amplificano quando traggono la forma di una lacrima. Ed il dolore si costituisce, e non latita più: esiste e non si occulta. Le domeniche di settembre, anticipo dell’autunno, eco del lunedì, lente e sospese, a volte sprecate, a volte preziose per gli istanti che le identificano, come il più poetico dei piccoli mondi antichi, sottolineano l’assenza. La puntualizzano, l’amplificano, eppure nel determinare un dolore ne diventano scudo e protezione. Mi cullano, acuiscono i ricordi, non negano il presente, ma sanno far rivivere il passato. E preziosa è stata la mia infanzia, anche in quelle domeniche che di già avevano per me qualcosa di stonante. Prezioso è stato il lungo tratto, eppure così breve, di vita percorso assieme fatto di scontri ed incontri, ideali condivisi, musica ascoltata, narrazioni ed analisi sulla realtà, balere e balli, lacrime e dolori, malattia, ancora analisi ed ideali, ironia e risate, così intense da star male. Ed allora, se tutto ciò e tanto altro che ancora non so dire e vorrei saper dire è evocato da questo settembrino, se tutta questa memoria è qui con me oggi, mentre scrivo, questa domenica di settembre ha in sé tutta l’infinita bellezza dell’esserci stati ed ora sono questi ricordi pre-autunnali ad essere preziosi come preziosa era la mano che mi teneva da bambina. (Credo metterò il maglioncino, caro papà, questo settembre per me è un po' più freddo).