Navanteri

Tempo, ancora per qualche giorno, di settembre, che è un po’ sempre come gennaio. Sembra che i giorni, così come le settimane, incidano lenti, in modalità attesa. L’estate, ormai, un’eco lontana, smarritasi e persa chissà dove e chissà perché.

Bnl

La necessità, un po’ impigrita, di riprendere ritmi ed orari che si collocheranno nella stagione autunno/inverno, nella non sempre glamour sfilata della vita, sembrerebbe ostacolata da giornate climaticamente ed episodicamente roventi. Il sole, sfacciato, irride i nostri buoni propositi e la nostra azione lasciandola un po’ sospesa e malandrina. E nell’eterno ricominciare, sempre un po’ smembrato, la concitazione di alcune giornate entra in netto contrasto con la lentezza settembrina, con la poetica autunnale, fagocitandola, ed è un po’ un peccato. Da qualche parte avevo letto che “Se non si può sprecare il pane figuriamoci la poesia”. Del pane che resta ci si possono fare le polpette, e la poesia intrinseca, anche nei giorni, anche nel quotidiano, quando la si sa subodorare, e scovare, quando si smarrisce in cosa si rigenera? Non certo in una serratura rotta! Succede nel quotidiano più prosaico che il semplice gesto di infilare una chiave in una serratura, in una normalissima sera pre-cena di settembre, infra settimanale, diventi complicato! La chiave non gira, e non c’è modo e maniera di farla girare, e sono claustrofobica, ma soprattutto perché la porta non si apre??? Proviamo, io e marito, soccorsi dalla vicina, Maria, il vicinato anche nelle latitudini nordiste è una consolante costante, che mi e ci accompagna. Le passiamo le chiavi dalla finestra, ma non c’è proprio niente da fare! Non ci resta che chiamare i vigili, ed incurante, o quasi, della mia claustrofobia, o meglio ci scendo a patti, ricordandomi che comunque non sarei uscita, razionalizzando il più possibile, mi lascio trasportare dal momento: mi sento immessa in una puntata di “Chicago-fire”. I vigili entrano dalla finestra, i miei vicini, le mie vicine, ci chiedono se stiamo tutti/e bene, “Che la porta o serratura non è niente, si aggiusta”. Una mia cara amica, Patrizia, dirimpettaia, mi telefona. Ginevra ride, noi con lei. E liberi/e siamo! Il giorno dopo mi adopero per riparare il danno: ricerca Google, suggerimenti da amiche, numero di telefono reperiti, il falegname? No, non serve, la ferramenta? La ferramenta suggerisce il fabbro, un fabbro, uno bravo. “Lei, signora, conosce un fabbro bravo?”. E per un attimo l’aria sembra fermarsi, un fabbro bravo, certo, il migliore, in un’altra vita, molto prima della malattia, molto prima della morte, era mio padre. E mi sembra di udire le parole di mia nonna paterna e di un vociare corale di comari (amatissime!): “Mani pinte, fortuna tinta”. Tinta, nera, come la malasorte, di contro il talento. E scopro dove si annida la poesia in questa vicenda, proprio lì, in quella serratura. E come tutta la poesia che si rispetti e che fa tremare l’anima, eppure la rigenera, si sposa con il ricordo e la malinconia, e tutte le sfumature della perdita. La serratura rotta, il fabbro, un’officina, mio padre, l’infanzia, tutto si materializza qui ed ora, in questo istante lombardo. “Signora, pronto? Lo conosce un fabbro bravo o le do io un recapito?”. Odo la mia voce raccontare: sì, un fabbro, bravo, il migliore, mio padre, morto un mese fa. Nella mia versione prefica vado narrandoti, è così che convivo con il lutto, e poi so di non mentire nel definirti Maestro, caro “Mastro Peppe”. “Le più sentite condoglianze, signora. Lo vuole il numero?”. Prendo il numero, ringrazio più volte, riattacco. Torno al presente, contatto il fabbro, fisso un appuntamento. Si palesa nel pomeriggio, lavora, fra odori e suggestioni evocative, i Pink Floyd come colonna sonora, forse fa capolino una lacrima furtiva. E la serratura è stata cambiata, per la cronaca: anche al momento del pagamento mi viene da piangere, ma questa è un’altra storia, decisamente meno poetica ...

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