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SPEZZANO ALBANESE - Nel cuore della Valle dell'Esaro, tra Spezzano Albanese, Terranova da Sibari, Tarsia e San Lorenzo del Vallo, la sanità territoriale è diventata una trincea. Nelle ore della notte, o nei fine settimana, quando la gente conta solo sullo squillo di un telefono, il servizio di guardia medica si trasforma in una esperienza mistica. 

Bnl

Un territorio vasto, popoloso, con migliaia di abitanti, viene affidato spesso a un solo medico, costretto a presidiare un’area che dovrebbe essere coperta da almeno quattro postazioni. È l’immagine perfetta del fallimento della sanità calabrese, commissariata, immobilizzata e incapace di garantire il diritto più elementare: quello alla cura. L’Asp continua a sostenere che il servizio è “garantito”, ma sui territori quel termine ha perso di significato. I medici sono ormai protagonisti di turni infiniti, di notti passate a gestire  telefonate che arrivano contemporaneamente da paesi distanti chilometri. Se rispondono a una chiamata urgente da Fedula, Spezzano resta scoperta senza assistenza. È un sistema che costringe chi è in servizio a scegliere chi soccorrere per primo, un dilemma etico e professionale che non dovrebbe mai esistere. Ma questo non è tutto: gli studi delle guardie mediche sono spesso sprovvisti dei farmaci di prima necessità, di strumenti di base, di guanti e materiali per le medicazioni. Le stanze sono fredde, spoglie, con armadietti vuoti e una burocrazia che si limita a verbalizzare i disservizi senza risolverli. Chi dovrebbe occuparsi dei rifornimenti, una figura prevista e retribuita, sembra non svolgere il proprio compito, e il risultato è che la notte, quando un cittadino arriva con una febbre alta o un dolore improvviso, si sente dire che deve andare al pronto soccorso. Così i pazienti si riversano negli ospedali, aggravando il caos dei reparti di emergenza e spingendo al limite il personale sanitario già stremato. Il 118, intanto, non è più quello di una volta. Le ambulanze che servono questa zona non sono medicalizzate: viaggiano senza medico, con il solo autista e un soccorritore, e in caso di codice rosso devono chiamare proprio la guardia medica. Ma quella stessa guardia è un medico solo, che deve lasciare lo studio e accompagnare, se necessario, il paziente fino in ospedale, lasciando interi paesi privi di assistenza. È un paradosso inaccettabile, una catena di errori che si perpetua da anni sotto gli occhi di tutti. A ogni emergenza, a ogni disservizio, segue puntualmente una riunione, un tavolo tecnico, un comunicato dell’Asp. Si parla di “criticità da affrontare”, di “riorganizzazione in corso”, ma intanto nulla cambia. I medici sono sempre meno, le forniture sempre più scarse, le ambulanze sempre più vuote. Il commissariamento, che avrebbe dovuto portare ordine ed efficienza, ha paralizzato il sistema. Le decisioni si perdono nei corridoi della burocrazia, mentre nei paesi dell’Esaro la notte scorre nel silenzio, con la gente che si arrangia come può. È una sanità che funziona solo sulla carta, che certifica la presenza di servizi che nella realtà non esistono. La popolazione è esasperata, ma abituata al peggio. Da troppo tempo vive nella convinzione che nulla cambierà. Eppure, non può esserci rassegnazione davanti a un servizio che dovrebbe salvare vite e invece rischia di perderle. Quando un medico lavora senza strumenti, senza colleghi e senza supporto, non è solo un problema di organizzazione, è un fallimento etico e istituzionale. Chi risponde di tutto questo? Chi controlla che gli studi siano riforniti, che le postazioni siano attive, che le ambulanze siano attrezzate? La risposta è sempre la stessa: nessuno. Tutti sanno, nessuno agisce. E così, ogni notte, il diritto alla cura viene messo in pausa, sostituito da un sistema che si regge sulla buona volontà di pochi medici e sulla pazienza di cittadini lasciati soli. Finché questo stato di cose continuerà, la parola “servizio sanitario” resterà una bugia scritta su un timbro. In queste terre, l’assistenza medica non è un diritto garantito, ma una fortuna che dipende dal caso. E nessuna istituzione può permettersi di chiamarlo ancora “servizio pubblico”.

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