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Il ben ch’io vi trovai

Il ben ch’io vi trovai

L’impianto narrativo del romanzo Il ben ch’io vi trovai di Coriolano Martirano è avvincente e conferma il tocco affabulatorio distintivo di tutta la produzione letteraria dell’autore.
Il titolo, mutuato da Dante (Inferno, 1, 8), è programmatico e lascia immaginare una trama interessante.
Il romanzo, edito da Imago Artis di Rossano (CS), è un romanzo storico fulcrato sulla dimensione del verisimile: l’autore racconta, su uno sfondo storico rigorosamente indagato, vicende possibili. E ci convince! Anche perché il romanzo si colloca, secondo una geometria compositiva, all’apice di quella che si può, a buon diritto, chiamare trilogia: forte è il legame, con altri due romanzi, Lucrezia della Valle e Il luogo delle anime.

È rinvenibile, infatti, nei romanzi citati, un continuum non solo tematico, (il manoscritto ricercato, rinvenuto e qui considerato modificabile, l’incendio dell’Archivio, il ruolo dell’Accademia) ma anche rappresentativo del sistema dei personaggi (alcuni dei quali agiscono nei tre plot narrativi).
La scena teatrale si apre a Trento, nel secondo piano del castello del Buon Consiglio, dove sono riuniti i vescovi per ascoltare la relazione del Nunzio apostolico sulle direttive del Concilio di Trento appena concluso: istituzione della Parrocchia come nuova struttura per il bene dei fedeli, affermazione teologica del Purgatorio, importanza del Volgare; si sposta poi a Venezia, presso San Marco in un palazzotto sede della Curia, dove il Nunzio apostolico, il Cardinale Bembo e il Vescovo fanno il punto sulle decisioni del Concilio e infine sul bastimento che, dopo 23 giorni di navigazione, arriverà in Calabria, a Rossano...
Sul Bastimento il Nunzio apostolico e il suo segretario, Sertorio Quattromani e sua nipote Lucrezia della Valle approfondiscono la conoscenza, conversando in latino: gli argomenti sono vari ma tutti riconducibili al manoscritto modificabile, specialmente la precisazione che Sartorio fa asserendo che nell’ambito della collaborazione tra Accademia cosentina ed Accademia del Canal Grande, è Lucrezia della valle che si interessa delle traduzioni in Volgare dal greco e dal latino.
Gli obiettivi di don Sertorio - al di là della sottolineatura dell’importanza della Accademia Cosentina (per il contributo significativo dato alla diffusione del Volgare, come lingua del regno di Napoli, ma anche in quello di Sicilia, dello Stato Pontificio, del Ducato di Parma, di Firenze, della Repubblica veneta ecc.) e l’elogio di intellettuali di prestigio (Battista Amici, Nicolò Salerno) - erano appunto il Reperimento del manoscritto di Lui (Dante templare), la Traduzione e la Correzione-adattamento-modifica dello stesso, per rendere operante il Concilio di Trento: quanto del manoscritto LUI (cioè Dante) abbia verseggiato, Bembo ne valuterà il contenuto sul doppio binario della modificazione e della enfatizzazione! Interessante la metafora della “potatura” che don Sertorio usa per ribadire la necessità della “Modificazione”: “[...] sarà il Cardinale a valutare...sarà il Nunzio a decidere l’utilizzazione attraverso la potatura dei rami sporgenti otre il dovuto o addirittura l’introduzione di rami non creati dalla natura”. (pag.115)
Noi lettori non possiamo non stupirci, a questo punto, della particolare “visione” della questione della lingua volgare: il volgare strumento di comunicazione utile, come sottolinea il Nunzio, “al fine di adattare queste cose ai nostri intenti, che sono poi quelli della pace e della giustizia”.
Il discorso dell’autore, quasi una “presa diretta” della realtà cinquecentesca, si configura come diegesi dialogica ed è connotato dall’Insistito uso della litote (più di 20 occorrenze), figura ironica per vocazione, per sfumare un giudizio che avviene ad un livello alto di eleganza stilistica capace di giostrare impliciti e allusioni.
La tensione narrativa crea, pertanto, un effetto di sospensione ironica e i dialoghi elegantemente calibrati sono un chiaro esempio di sprezzatura (secondo in canone di Baldassarre Castiglione), un abile gioco tra diplomazia ed ipocrisia cortigiana sia quando la scena è agita a Trento o a Venezia o sul bastimento, sia anche in Calabria (dove non manca la visita a Telesio in Cosenza “città libera”).
L’autore inducit loquentes a precisare questioni davvero rilevanti come per esempio la scelta (da parte della Chiesa) di scrittori, poeti, pittori e filosofi capaci di diffondere non solo i principi della Chiesa, ma in grado di capire che “rifare” la storia quando è opera destinata al Bene Comune non è peccato né delitto!
L’utilizzo dei laici come instrumentum Regni già ai tempi del Concilio di Trento e la connessione con la Questione della lingua e il trasferimento dell’Archivio imperiale a Cerenzia è davvero una trovata geniale!
Perciò questo libro di Coriolano Martirano va letto tutto d’un fiato!

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